Passaggio di consegne
In Siria Trump ha fatto a Putin l'ultimo di una serie lunga di favori
Dal Rojava alla Libia, passando per la Nato, caso Skripal e impeachment, ogni mossa della Casa Bianca delizia il Cremlino
Roma. Se il presidente russo Vladimir Putin avesse potuto ottenere il finale perfetto per la sua campagna militare in Siria l’avrebbe immaginato così: l’America si ritira di colpo senza chiedere nulla in cambio, abbandona le sue postazioni militari nel nord del paese ai soldati russi, spinge i suoi alleati curdi finanziati e armati e addestrati per quattro anni di nuovo nelle braccia del regime di Damasco – che non aspettava altro – e della Russia. Inoltre se possibile Putin avrebbe voluto anche una crisi profonda tra l’America e la Turchia, i primi due eserciti della Nato, magari una spaccatura così spettacolare da spingere a chiedersi che senso abbia ancora l’Alleanza atlantica. Ebbene, Putin ha avuto tutto questo e a servirglielo ancora una volta è stato il presidente Trump. I primi tre anni del mandato del presidente americano sono stati spesi da molti a chiedersi se fosse in qualche modo colluso con Mosca o se soffrisse di una soggezione particolare verso i russi. E’ una domanda che non è stata risolta, ma dal punto di vista pratico si può rispondere così: le mosse di Trump in politica estera finiscono in un modo o nell’altro per favorire la Russia.
Durante il vertice di Helsinki nel luglio 2017 Trump disse che si fida più di Putin che dei rapporti delle agenzie di intelligence americane – fu un autogol in diretta televisiva che probabilmente nemmeno i russi si aspettavano e il preludio a quello che è seguito. In altre occasioni Trump ha reso chiarissimo il fatto che lui disprezza la Nato e la considera un accordo svantaggioso per gli Stati Uniti e questo ha reso ogni incontro dell’Alleanza atlantica molto imprevedibile in un periodo che invece richiederebbe un surplus di certezze. Secondo alcuni consiglieri citati dal New York Times il presidente vorrebbe ritirarsi dalla Nato, ma per ora non lo ha fatto. Un altro capitolo che illustra bene questa tendenza naturale a facilitare la vita del governo russo: Trump si infuriò con il dipartimento di stato perché l’America aderì alla rappresaglia diplomatica dell’Europa contro Mosca dopo il caso Skripal nel marzo 2018 – l’avvelenamento con un agente nervino di un disertore vicino Londra da parte dei servizi russi. La rappresaglia consisteva nella cacciata di diplomatici della Russia dalle ambasciate. Trump si arrabbiò perché avrebbe voluto che gli americani avessero cacciato meno russi.
Sempre nel 2018 Trump assegnò al presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, il ruolo di responsabile d’area per la questione libica. Fu un’investitura pesante, ma Trump in pratica se la dimenticò e oggi che in Libia c’è una guerra civile ha scelto di essere inerte – quasi, c’è stata una dichiarazione d’incoraggiamento per il generale Khalifa Haftar. A settembre sono arrivati in Libia cento mercenari russi per combattere dalla parte di Haftar, che non sono un contingente regolare ma non potrebbero essere lì senza l’approvazione del Cremlino. Anche in Libia i russi trovano molto spazio di manovra, concesso in modo casuale.
A luglio Trump ha bloccato un pacchetto di aiuti militari di quasi quattrocento milioni di dollari per l’Ucraina perché voleva favori dal presidente ucraino. Si trattava nel caso specifico di una partita di missili controcarro che avrebbe reso più deboli le minacce russe contro Kiev. Il possibile scambio di favori però è stato denunciato da un informatore ed è scattata una richiesta d’impeachment contro il presidente. Ancora una volta la situazione è ideale per Mosca, Putin vince comunque. Se le cose fossero andate male per un verso i missili sarebbero rimasti in America, invece sono andate male per un altro verso e l’Amministrazione americana si trova nel mezzo di un disastro d’immagine e politico. In questa sequenza di fatti, però, la telefonata di Trump a Erdogan di domenica sei ottobre che ha consegnato la Siria curda ai russi ha il posto principale.