E se il governo spagnolo si facesse forzare la mano in Catalogna?
Le proteste violente, fiancheggiate dal governo di Barcellona, sono una novità che sconvolge la campagna elettorale
Milano. Ecco cos’è successo nelle ultime tre notti a Barcellona e in altre città della Catalogna. Migliaia di ragazzi sono scesi per strada e, per la prima volta in molti anni, hanno impresso una spinta violenta alle proteste degli indipendentisti catalani, dopo che la Corte suprema spagnola ha condannato i leader secessionisti che organizzarono il referendum del 2017 a dure pene detentive. Le proteste sono state favorite e invocate dai partiti indipendentisti e dal governo centrale, che però ne ha presto perso il controllo. Finora le manifestazioni erano indette e gestite da organizzazioni storiche dell’indipendentismo come Anc e Òmnium, che hanno forti legami con il movimento e avevano adottato una strategia di pacifismo assoluto, con slogan come “nemmeno una cartaccia per terra” e “noi siamo gente di pace”. Le nuove organizzazioni in campo si chiamano Comités de Defensa de la República (CDR), Anonymous Cataluña, Picnic X la República, ma la più importante è certamente Tsunami Democràtic, che è diventata famosa perché i suoi membri si organizzano mediante una app privata che non può essere scaricata dagli store tradizionali, ma viene passata da attivista ad attivista grazie a un codice QR. Secondo il País, Tsunami Democràtic ha radici profonde, ma la parte visibile del movimento è stata fondata lo scorso settembre, con l’appoggio esplicito del governatore catalano, l’indipendentista Quim Torra. Al contrario dei loro predecessori, i membri di queste nuove organizzazioni non rifuggono la violenza. Incendiano automobili e cassonetti, creano barricate per le strade e si scambiano volentieri calci e colpi con i Mossos d’Esquadra, la polizia locale che nei giorni del referendum era vista come una forza patriottica al servizio della repubblica catalana, ma che negli ultimi giorni è tornata a essere l’avversario.
Lunedì notte i manifestanti hanno cercato di occupare l’aeroporto El Prat, martedì se la sono presa con l’edificio di rappresentanza del governo di Madrid a Barcellona, ma mercoledì notte c’è stata una novità: le proteste violente sono state rivolte contro il ministero dell’Interno del governo locale, a testimonianza che l’alleanza si è incrinata. Il Confidencial ha riportato le voci di alcuni dei manifestanti, e uno ha detto: “Sono sette anni che sopportiamo questa merda”, come a dire: c’è bisogno di cambiare strategia. Così ieri da un lato Quim Torra ha condannato le proteste (nel cuore della notte tra mercoledì e giovedì, quando le cose si stavano mettendo male), incolpando però presunti infiltrati violenti, e dall’altro, davanti al plenum del Parlamento catalano, ha annunciato la sua intenzione di indire un nuovo referendum sull’indipendenza, il secondo dal 2017, il terzo in pochi anni. Molte forze politiche, anche quelle indipendentiste, si sono mostrate tiepide davanti all’annuncio, ma l’idea è che, tra le proteste violente e il movimentismo delle autorità locali, la politica spagnola rimarrà intrappolata sulla questione catalana ancora a lungo.
La Spagna è in campagna elettorale, e ormai la questione catalana è l’unico tema che interessa a tutti. Pedro Sánchez, premier socialista uscente, pensava che la sentenza della Corte suprema avrebbe favorito le sue possibilità di vittoria e gli avrebbe consentito di mostrarsi come il garante dell’unità nazionale, ma il calcolo si è rivelato sbagliato. I suoi avversari lo pressano da tutte le parti, e mercoledì notte era tutto un parlare di “Catalogna in fiamme”, per dare l’idea che Sánchez non sia in grado di gestire la situazione (gli scontri in realtà sono stati piuttosto localizzati nel centro di Barcellona). Con i sondaggi in calo, Sánchez potrebbe essere costretto a mostrare più durezza di quanto lui stesso non voglia.