“We have a deal”
Johnson trova l'accordo con l'Ue sulla Brexit. Ora fuori la lavagna: si va ai Comuni
Compromessi e flessibilità: così il pragmatismo ha vinto nel negoziato tra Londra e Bruxelles. I dettagli e i calcoli
Milano. Quando c’è la volontà, l’accordo si trova, ha detto felice il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, poco prima di arrivare in conferenza stampa con il premier inglese, Boris Johnson, anche lui raggiante, perché nel frattempo i suoi sostenitori a Londra gridavano: questa è la vendetta della strategia della Brexit di Boris. “We have a deal”, ha detto Johnson, l’accordo sulla Brexit tra Regno Unito e Unione europea è infine stato trovato, che divorzio sia – se i Comuni di Londra lo vorranno.
Per chi la Brexit non la voleva, questo è un giorno triste, la fine di tutto forse; per chi pensava che la volontà popolare britannica dovesse essere rispettata, questo è un buon accordo; per chi voleva una Brexit “hard” questo è un compromesso inaccettabile. Se Johnson non fosse il primo ministro, non lo voterebbe insomma, ma siccome è il suo accordo – la volontà politica è tutto, il pragmatismo di chi governa è di più – ha ceduto sull’Unione doganale dell’Irlanda del nord, sull’iva che deve essere allineata a quella europea, e di fatto sul confine aperto con l’Irlanda. Il backstop è stato “abbandonato”, come ha detto il caponegoziatore Michel Barnier (il più sollevato di tutti: circola il suo nome come commissario francese al posto di Sylvie Goulard) ed è stato introdotto il cosiddetto “meccanismo del consenso”, cioè il Parlamento di Belfast può decidere di rifiutare unilateralmente questo assetto che di fatto unisce l’Irlanda del nord all’Irlanda (e quindi all’Ue) più che al Regno Unito. Ma l’assetto politico attuale dell’Irlanda del nord non lo consente ed è il motivo per cui il Sinn Fein dice che è un bell’accordo e il Dup, che è rilevante nel voto ai Comuni con i suoi dieci deputati a Londra, continua a essere contrario. Chi ha ceduto di più, quindi, Johnson o l’Ue? La risposta rapida è: molto Johnson e un po’ anche l’Ue, e questo è il bello della politica, quando funziona. Certo: delle storiche fantasie di Boris non c’è più traccia.
Ora l’accordo deve passare il vaglio dei Comuni e con tutti i giri che ha fatto la Brexit nei suoi tre anni di esistenza si sa che ogni cosa finisce in quell’aula dallo sfondo verde. Quindi si tirano fuori di nuovo le lavagne: il Dup nordirlandese ha già detto che non voterà l’accordo Johnson, e anche se gli incentivi continuano perché si sono intravviste delle crepe nel gruppo parlamentare, pare che Johnson sia rassegnato a non avere quei voti. Conta di convincere sia i conservatori indipendenti (quelli che sono stati espulsi dal partito nella battaglia parlamentare di settembre) sia gli “spartani”, i falchissimi della Brexit, che a rigor di logica non dovrebbero volere un accordo che di “hard” non ha nulla, ma la logica non è mai stata molto rilevante: infatti il riallineamento degli spartani a favore di Johnson è già in corso (Jacob Rees-Mogg, il falchissimo, ha definito l’accordo “eccitante”). Il premier però punta – deve, non ha alternative – anche a quella che è considerata una preda possibile (si dirige già nella direzione auspicata), cioè il Labour: ufficialmente, il partito di Jeremy Corbyn è contrario all’accordo e anzi dice di volere “categoricamente” un referendum. Ma le ribellioni dentro al Labour sono leggendarie quanto quelle dentro ai Tory, e quindi ora tutta l’attenzione è su quei deputati che vengono da circoscrizioni a favore della Brexit, i rivoltosi utili. Se il Dup non vota per l’accordo, se i Tory e gli indipendenti invece sì, servono almeno 19 parlamentari laburisti. Gli euroscettici nel Labour sono molti di più, ma non basta essere a favore della Brexit, bisogna anche non rispettare la linea di partito e fare il calcolo giusto: i conservatori sono più battibili alle elezioni generali, se hanno fatto la Brexit o se non l’hanno fatta? Chissà.
Al momento, l’Ue ha dato tutto l’aiuto possibile a Johnson per ottenere l’accordo dei Comuni: se non c’è il voto favorevole, Juncker ha escluso un’estensione dell’articolo 50. Cioè: o questo accordo o nessun accordo. Più della volontà politica, più del pragmatismo, potrà solo lo sfinimento.