Yeaaah! E' la democrazia parlamentare, bellezza
Parlano, urlazzano, affettano rispetto e sfiducia, accuse spietate e riconoscimenti di fair play. Poi si contano le teste. A Westminster la politica allo stato puro, un incubo che ci ha sempre fatto sognare
Chissà come è andata ai Comuni, e se è andata o è rinviata (vedi il Post scriptum del pomeriggio di sabato). Certo che Westminster resta il modello universale della guerra parlamentare, la più carnale, scambista, idealistica e realistica, ma inoffensiva, delle guerre possibili. Parlano davvero, brevemente e significativamente, in aula. Parlano dalla prima mattina, puntuale BoJo alle 9 e mezzo. Parlano in un rettangolo che li divide e li unisce. Parlano, urlazzano, si siedono e si alzano. Parlano senza la cortese e pomposa abitudine dell’applauso, è preferito il grugnito (yeaaah! uuuh! buuuh!). Parlano con tono alto, e gli alternano il ricatto retorico e non solo retorico. Parlano, ridono, affettano rispetto e sfiducia, accuse spietate e riconoscimenti di fair play in eguale misura: right honorable gentlemen. Parlano al telefono, riservatamente. Nessuno li intercetta. Parlano di promesse: un peerage, una menzione d’onore, soldi per il distretto elettorale, in altri paesi andrebbero tutti sotto processo per voto di scambio e traffico di influenze. Parlano con i loro elettori, e ne devono tenere conto. Parlano con la onnipresente storia britannica, con i sogni europei, con lo spirito isolano delle ambizioni imperiali d’antan. Parlano con la terra, il continente, e con il mare. Sono indisciplinati e osservanti delle regole. Parlano con lo speaker, che li garantisce e li staffila. Parlano in lode dello staff, che sacrifica il weekend dopo 37 anni per un supersabato parlamentare da cui dipende molto del futuro: il weekend alle ortiche, sacrifici ultrachurchilliani, lacrime sudore sangue e famiglie afflitte dagli straordinari, bambini delusi (ma in una solare ottobrata mattinale londinese tra Hide e Regent’s Park). Parlano con il turbante, se lo vogliono, altro che laïcité.
Il premier risponde a tutti. Si siede si rialza in piedi ogni volta, come alla messa cattolica (Bercow: primeministeeeer!). Dà a Corbyn di semimarxista, un vero insulto nell’understatement. Vanta l’accordo, in cui nessuno credeva. Dice che il cuore del paese è diviso, sia tra chi era per o chi era contro la Brexit: tutti europei e tutti britannici. Ora bisogna riunirlo, e c’è un testo legislativo da votare per farlo, e per andare avanti. Gli amici europei e il business, e i cittadini, non aspettano altro, dice, mentre si radunano le masse incongruamente e generosamente riunite per l’appello al people’s vote, che c’è già stato tre anni e mezzo fa, per essere veritieri. Il fattore fatigue, il fattore noia, è sfruttato a piene mani, a piena gola. Ma fino all’ultimo c’è eccitazione. Il teatro è nelle vene del popolo e dei suoi rappresentanti. Tutti sanno che l’opera non è finita finché la cantante grassa non ha cantato, till the fat lady sings. Tutto è incerto, voto per voto. La dissimulazione regna sovrana e si mescola con candore e sincerità. E’ la politica allo stato puro, ma politica applicata, non gassosa, politica con un oggetto, tutto è revocabile tranne il perseguimento di una decisione o di una deliberazione che continua a sfuggire e dipende dai numeri. Sui diritti doganali un parlamento fu sciolto e dopo una guerra civile un re fu decapitato. Ora le teste si contano.
Post scriptum pomeriggio di sabato. Le teste si sono contate e come avete visto hanno scelto il rinvio, una tipica disposizione della democrazia parlamentare, un incubo che ci ha sempre fatto sognare.