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Carte riservate su Huawei e la (non) libertà d'espressione. Un'inchiesta del Foglio

Giulia Pompili

Il documento confidenziale sul codice di condotta dei dipendenti rivela che l'azienda chiede ai suoi impiegati di non esprimere nessuna idea politica. Un comizio vale come un post su Facebook o un commento ad alta voce in mensa?

Roma. Il colosso delle telecomunicazioni cinese Huawei ha dato una stretta alla libertà di espressione dei suoi dipendenti, anche in Europa, secondo alcuni documenti riservati ottenuti dal Foglio. Il codice di condotta interno dell’azienda, firmato ogni anno dai dipendenti delle sedi fuori dalla Cina di Huawei entro la fine di ottobre, stabilisce una serie di norme che apparentemente contrastano con quelle sulla libertà d’espressione previste dalla Costituzione, dallo Statuto dei lavoratori in Italia e dalla normativa europea sul lavoro.

 

Al capitolo 5 paragrafo 3 della versione numero 4.0 del “Corporate business conduct guidelines” di Huawei, documento “approvato dal fondatore Ren Zhengfei” e aggiornato al marzo 2019, si legge che “l’azienda si concentra solo sul business. Quindi, senza approvazione, l’impiegato non può partecipare a qualsiasi attività politica o esprimere qualsiasi opinione politica”. Qualsiasi. Dunque un comizio vale come un post su Facebook o come un commento a voce alta a mensa. Nel periodo successivo si legge che “senza prima ottenere un consenso dall’azienda, l’impiegato non è autorizzato a partecipare a qualsiasi attività comunitaria in nome dell’azienda o come impiegato dell’azienda”. Qualsiasi. Se l’azienda dovesse subire “conseguenze negative” legate a queste “attività del dipendente”, è lui che “dovrà dimettersi”. Le linee guida dello scorso anno, che gli impiegati di Huawei hanno firmato entro il 30 ottobre del 2018, nel medesimo capitolo riportavano la frase seguente: “L’azienda è orientata al business. Quindi, senza autorizzazione, un impiegato non può, nel nome dell’azienda o come impiegato dell’azienda, partecipare a qualunque attività politica, esprimere una qualunque opinione politica o partecipare a qualunque attività comunitaria”.

 

La differenza tra le due versioni appare sottile ma non lo è: se fino al marzo 2019 gli impiegati di Huawei non potevano esprimere le proprie idee politiche “in nome dell’azienda”, ora non possono farlo e basta. Tutte le grandi aziende hanno un codice di condotta interno, ma nelle parti in cui si tocca il tema della libertà d’espressione utilizzano formule generiche che vietano la discriminazione sulla base, tra le altre cose, delle idee politiche. All’inizio del documento Huawei, tra le “linee guida di base”, è scritto che non sono consentite sul luogo di lavoro discriminazioni “o trattamenti diversi sulla base della razza, del colore, della religione, del sesso, dell’età, della nazionalità, della genetica, delle disabilità, o altri fattori non relativi ai legittimi interessi di business dell’azienda”. Le opinioni politiche non vengono menzionate.

 

Sollecitata dal Foglio, Huawei Italia non smentisce e precisa che “si tratta di un documento interno che regola i comportamenti aziendali che il dipendente tiene nell’esercizio delle sue funzioni e attività lavorative. Pertanto non intende limitare l’esercizio privato dell’attività politica o la libertà di espressione dei dipendenti, ma si riferisce alle condotte che il dipendente dovesse tenere nel momento in cui partecipa a eventi o attività politiche come rappresentante dell’azienda o nell’esercizio delle sue funzioni aziendali. I codici di condotta aziendali fanno riferimento alle comuni pratiche adottate dalle aziende multinazionali e hanno come principale obiettivo quello di proteggere la reputazione aziendale, lo sviluppo del business e con esso i clienti e i dipendenti”. Eppure nel documento modificato di recente si parla dell’impiegato in quanto tale, e non come rappresentante dell’azienda.

 


Le linee guida dell'azienda per i dipendenti. Sopra la versione del 2018 e sotto quella aggiornata nel marzo del 2019, che i dipendenti dovranno firmare entro il 30 ottobre prossimo


 

A quanto risulta al Foglio, la Cisl non ha alcun rapporto con dipendenti Huawei in Italia e Riccardo Saccone, responsabile area Tlc della Cgil, dice che “stiamo provando a gestire un dialogo” ma al momento, rispetto ad altre aziende, “è decisamente perfettibile”. “La libertà di partecipazione ad attività politiche o sindacali è garantita sia dal diritto del lavoro italiano sia da fonti sovranazionali”, dice al Foglio Maurizio Del Conte, professore associato di Diritto del lavoro alla Bocconi, “che ovviamente prevalgono sui regolamenti aziendali. Diverso è il caso del lavoratore che utilizzi il nome dell’azienda per promuovere la propria carriera politica”.

 

Il tema è particolarmente sensibile, perché non solo i dipendenti di un’azienda potrebbero essere costretti a evitare di parlare di questioni che non piacciono al datore di lavoro, ma dopo il boicottaggio cinese dell’Nba, a seguito di un post sui social network su Hong Kong, il tema dell’autocensura si è esteso in generale al business con la Cina. Huawei è un’impresa privata, ma come tutti i colossi del business ha un rapporto molto stretto con il governo centrale. Domani Huawei Italia inaugurerà la sua nuova sede romana. Insieme con Thomas Miao, ceo Huawei Italia, e Li Junhua, ambasciatore cinese, come rappresentante delle istituzioni italiane ci sarà Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri. Forse avrà qualcosa da chiedergli.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.