Contro il sistema delle sette
C’è una rivolta incredibile a Beirut. Una tassa su WhatsApp infiamma il Libano e ora la gente prende di mira e vuole eliminare la spartizione religiosa del paese
“Tutti significa tutti”. Tutti fuori. E tutti loro. Loro sono i leader politici del Libano. Lo slogan che le piazze del paese scandiscono da nove giorni non ha pietà: nessuno è escluso dalla rabbia della protesta gridata nelle strade e scritta sui muri delle città. E’ verso il tramonto che a gruppi i manifestanti si incontrano nel centro di Beirut. Riempiono piazza dei Martiri e la vicina piazza Riad el Solh, su cui si staglia imponente il Grand Serail, l’antico palazzo ottomano che ospita il governo libanese. Hanno un rima per ogni comparsa della politica locale, che si tratti di leader cristiani, musulmani sunniti o sciiti, druzi. “Ladro, sei un ladro Nabih Berri”, urlano al presidente del Parlamento, sciita come vuole la Costituzione. “Tutti significa tutti, anche Nasrallah”, è il canto che prende di mira il segretario generale di Hezbollah, il partito di Dio e milizia, i cui ministri siedono nel governo del premier sunnita, Saad Hariri, e sono alleati del presidente cristiano Michel Aoun. Ed è per il genero del capo di Stato, Gebran Bassil, che la folla arrabbiata riserva in forma di ritornello gli insulti peggiori. Per i manifestanti, il ministro degli Esteri è simbolo di tutto quello cui la protesta si oppone: la corruzione della politica che drena le riserve dello stato, il sistema confessionale che genera clientelismo.
E’ da nove giorni che i libanesi hanno inventato una protesta inedita, che riprende ritmi e slogan delle primavere arabe del 2011 per farli propri e riadattarli alle complessità del piccolo paese levantino, in cui convivono diciotto diverse confessioni religiose. A innescare il dissenso è stato l’annuncio di una tassa di 0,18 centesimi di euro per ogni giorno su WhatsApp, in uno dei luoghi in medio oriente in cui il costo delle telecomunicazioni è più alto. In un paese in cui la crisi economica diventa ogni giorno più profonda, il debito pubblico di 79 miliardi di dollari è pari al 150 per cento del pil, la disoccupazione sotto i 35 anni è al 37 per cento, il malcontento sociale è esacerbato dalla difficoltà del governo di gestire 1,5 milioni di profughi siriani su una popolazione di quattro milioni, è bastato poco a far esplodere la rabbia. Ci è voluto anche molto poco affinché le rivendicazioni economiche si trasformassero in richieste politiche e che la piazza infrangesse un tabù decennale. Il Libano ha manifestato nel 2005 contro l’occupazione siriana. La piazza allora era però divisa tra cristiani e sunniti da una parte, sciiti e i loro alleati dall’altra, ed era mobilitata da partiti tradizionali. Nel 2015, un nuovo dissenso ha toccato il paese, in forma più mite e ridotta delle vaste manifestazioni di queste ore. Piccoli gruppi di persone chiedevano al governo di governare. Agli angoli delle strade del centro e delle periferie di Beirut si ammassavano pile di immondizia, mentre nei corridoi del potere i leader dei diversi movimenti religiosi si rimbalzavano accuse e responsabilità. I manifestanti domandavano di regolare un antico problema libanese, quello dei tagli di corrente elettrica, sempre più frequenti ovunque, che condannano un’intera nazione a vivere attaccata ai generatori privati; rivendicavano spazi verdi in città, una politica ambientale, servizi per il cittadino. La protesta non aveva però coinvolto tutte le fasce della popolazione e soprattutto tutte le confessioni.
Sono senza precedenti invece le immagini di continue manifestazioni in una città come Nabatieh, nel sud, feudo dei movimenti sciiti Amal e Hezbollah, che sono parte integrante del governo contro cui i manifestanti protestano. A Beirut, città che riunisce tutte le confessioni, i festosi cortei serali raccontano l’intero paese, mettono assieme diverse generazioni, classi sociali, regioni, religioni in un’unica rivendicazione: la fine del regime, sì, lo si cantava già in Egitto, in Tunisia, in Libia, in Siria nel 2011, ma anche la fine del sistema confessionale.
“Perché per qualsiasi cosa che faccio devono chiedermi qual è la mia religione? Non voglio che sia così – ci dice Abbas Zahri davanti al filo spinato che divide i manifestanti dal palazzo del governo – Nessuno qui lo vuole. Vuoi pregare, prega, ma lasciami vivere la mia vita”. Abbas ha 45 anni, è presentatore e creatore di un programma televisivo sull’emittente privata LBC che affronta la questione del confessionalismo. Racconta di aver combattuto, verso la fine della guerra civile che ha diviso il paese tra il 1975 e il 1990, in una milizia. Poi, sul telefono, mostra la foto del fratello, armato, in mimetica, morto combattendo contro Israele prima del 2000. “Sono sciita, sono del sud, ma abito a Beirut. Mi chiedono: tuo fratello era Hezbollah, perché vieni qui in manifestazione? Siamo stanchi di parlare di combattimenti e di religione. Mia figlia ora ha 18 anni, non posso pagarle nessuna università. Vuole diventare un dottore, ma per farla studiare devo baciare la mano di qualche leader religioso. Dal sud al nord la richiesta è la stessa. Myra è originaria di Tripoli, seconda città del paese, al nord. Ha 21 anni. Ha cancellato dal documento di identità la propria appartenenza religiosa “perché penso di essere libanese, qualsiasi setta io sia, mi focalizzo sulla mia nazionalità piuttosto che sulla mia religione”. L’obiettivo della sua protesta è proprio la fine del sistema delle sette. Più facile a dirsi che a farsi. L’ex ministro Ibrahim Chamseddine, fervente oppositore di Amal e di Hezbollah, figlio dell’ex presidente del Consiglio superiore sciita, Mohammad Mehdi Chamseddine, parla di cliché alla libanese. La farsa delle divisioni, dice, è opera dei politici, una specie di dividi et impera in salsa levantina: “Se gli sciiti fossero lasciati a esprimersi liberamente sarebbe tutta un’altra storia, invece nel sud – roccaforte di Hezbollah e Amala, ndr – è uno stato di polizia. Così, allontanano le persone dalla religione, avvelenano la fede”. Per l’ex ministro, un risultato di queste proteste sarebbe quello di ottenere un governo di transizione formato da persone che accettino la responsabilità di avanzare riforme economiche e preparare il terreno a nuove elezioni. Uscire dal confessionalismo, in un paese in cui secondo Costituzione il presidente è cristiano, il primo ministro musulmano sunnita e lo speaker del Parlamento sciita, resta però un processo lungo. La soluzione, in realtà, il Libano l’ha già formulata. E’ proprio in quella Costituzione, emersa dalla guerra civile. L’articolo 22 prevede l’elezione di una Camera dei deputati su base nazionale non confessionale, e un Senato che rappresenti “tutte le famiglie spirituali” che intervenga soltanto in “questioni nazionali di interesse maggiore”. L’articolo 95, invece, spiega come la Camera dei deputati “eletta su base egalitaria tra cristiani e musulmani” debba prendere disposizioni per la “soppressione del confessionalismo politico” seguendo un piano a tappe. Su cui nessuno però finora ha mai lavorato. Il Libano, dice Chamseeddine, resta così una “federazione travestita da stato”. Le proteste hanno “cancellato il confessionalismo dai cuori, ora cancelliamolo dalla politica”.
I politici sembrano finora non avere nessuna intenzione di farlo. Il dissenso entra oggi nel suo nono giorno, aumentando in potenza nonostante i temporali degli ultimi due giorni, e in fantasia. Le manifestazioni in centro a Beirut sono una festa serale di colori, sapori e musica. La cornice è un racconto a immagini dell’essenza del Libano: la cupola turchese della moschea Mohammed al Amin e il rosso della croce del campanile della cattedrale maronita di Saint Georges fanno contrasto con le luci dei grattacieli della skyline della capitale. Sotto i simboli religiosi si balla la dabke, la danza tradizionale locale, gli slogan delle proteste del mondo arabo sono riproposti con basi techno da DJ itineranti e da consolle montante sul tetto di furgoncini. I venditori ambulanti distribuiscono pannocchie salate e succhi di melograno, si creano accampamenti per la giornata e si rischiano scontri e tensioni, come accaduto ieri quando sostenitori di Amal e Hezbollah si sono avvicinati alla piazza. La vera protesta, però, è nata e resiste lontano dal cuore chic di Beirut, dalle vie dei locali notturni: è alle rotonde lungo le strada che portano fuori Beirut, e attraversano i sobborghi più popolari, qualsiasi sia la loro appartenenza religiosa. Da giorni, viaggiare a nord verso la montagna cristiana è quasi impossibile. E’ l’ottavo giorno di protesta quando a Doura, cittadina sull’arteria che porta a nord, i giovani che da ore bloccano con i loro motorini e le loro automobili la circolazione iniziano a scandire slogan all’arrivo dell’esercito, chiamato dal governo a liberare le strade di un paese ormai bloccato da giorni. La maggior parte degli uffici resta chiusa, come le scuole. A Beirut è difficile trovare qualcosa di aperto che non sia un ristorante nel quartiere della vita notturna di Gemmayze.
“Vi ho sentiti”, ha detto il primo ministro Saad Hariri lunedì, quando dopo giorni di silenzio ha parlato al paese presentando un piano di riforme economiche improvvisato in 72 ore. “Vorrei che non avessi parlato”, è la scritta a decoro degli impietosi graffiti spuntati il giorno dopo sui muri della capitale con la faccia stilizzata del premier. Soltanto ieri, dopo otto giorni di protesta, ha parlato il presidente Michel Aoun, invitando “i rappresentanti della piazza” al dialogo e accennando a un possibile rimpasto di governo. Le riforme proposte finora non hanno però calmato la piazza: una riduzione del 50 per cento degli stipendi dei politici, la fine della corruzione, l’impegno delle banche a contribuire con 3,3 miliardi di dollari per arrivare a un deficit di bilancio quasi pari a zero entro il 2020 sono le riforme proposte e che dovrebbero garantire, se implementate, l’arrivo di 11 miliardi di donazioni straniere per risanare un’economia a pezzi. “Vogliono far sembrare tutto un problema tecnico. Non lo è. Come può una mafia che gestisce il paese fare riforme convincenti?”, si chiede Mona Fawaz, professore di Urbanistica all’American University di Beirut, e membro di Madinati, una campagna della società civile nata dalle proteste del 2015. “Le persone si stanno liberando dai loro signori religiosi. Significa che i libanesi non sono più confessionali? No, significa che sono stufi del sistema che li governa. Le alternative? Cercano tutti un principe azzurro per portare la corona, ma a questo punto non è ancora una richiesta realistica. Serve un piccolo governo di transizione formato da tecnocrati e figure indipendenti dalla classe politica che porti a nuove elezioni con una nuova legge elettorale proporzionale”.
Ogni rivoluzione nel mondo arabo dal 2011 a oggi è esplosa con entusiasmo e ha spesso peccato di ingenuità. Per scardinare il sistema settario, che Nassif Hetti, ex ambasciatore della Lega araba in Francia, definisce “il cancro” del paese, non può che servire tempo, e “siamo ancora lontani”. Serve nel frattempo occuparsi della questione economica, creare una classe media “sviluppando piccole e medie imprese e un’industria agricola” che evitino la fuga di tutti i giovani laureati dal paese.
“La guerra civile è finita con queste manifestazioni e il dopo non potrà mai essere come il prima”, sostiene Toufic Gaspard, economista ex consigliere della Banca centrale libanese e del Fondo monetario internazionale. La sua preoccupazione è che la pessima situazione economica possa ancora peggiorare, e che ci sia una svalutazione della lira. “Se sono scesi in piazza per 0,18 centesimi per WhatsApp, che cosa accadrà quando crolleranno la lira e i salari?”. Loro hanno una risposta: hanno già montato la tenda. Siedono per terra davanti a un piccolo accampamento vicino al palazzo del governo. Sono due amici, bevono birra e tè e mostrano i loro tatuaggi. Uno è di Byblos, sulla costa a nord di Beirut, e ha sul bicipite la Lupa della Roma. L’altro è di Baalbeck, nella valle della Beqaa, e sfoggia sull’avambraccio un’icona di Totti. “Vorremo vedere al governo – dicono – persone adeguate a controllare il paese. Non voglio avere un presidente cristiano e un premier musulmano per Costituzione, ma persone qualificate nel loro ruolo: vogliamo un sistema laico”.