Se sei un moderato in Inghilterra, chi voti? L'ultimo valzer del voto tattico
Corbyn sembra aver vinto la guerra interna al Labour. Ma nel paese del bipolarismo ora è Jo Swinson (Libdem) a porsi come unica garante di una terza via
Milano. La campagna elettorale inglese ha fatto esplodere la guerra interna al Partito laburista e, a prima vista, il vincitore sembra il leader, Jeremy Corbyn. Si è dimesso il suo vice, Tom Watson, un moderato a lui ostile, e così ora i corbyniani non soltanto si sono liberati di un nemico interno, ma potranno anche selezionare uno di loro al suo posto. Il processo di deselezione dei laburisti moderati è già iniziato e procede a grandi passi, consolidando il potere di Corbyn nel partito dopo anni – Corbyn è stato eletto leader nel 2015 – di scontri, dispetti, epurazioni e fuoriuscite. Questo che si presenta alle elezioni è il Labour di Corbyn, radicale dal punto di vista sociale ed economico, ambiguo sulla Brexit: se non vi va bene, cari laburisti, la porta è quella. Watson l’ha varcata, dopo trentacinque anni di politica e molte altre guerre combattute (faceva parte della corrente legata all’ex premier Gordon Brown), ma non se l’è sbattuta alle spalle, come molti si auguravano, non ha detto che questo Labour, più Old che mai, non è più una casa accogliente per i moderati. In questi anni di convivenza scomoda e frustrante, Watson ha più volte manifestato il suo disagio, denunciando la frattura sempre più profonda tra le due anime del partito – che sono le due anime che litigano in tutte le sinistre occidentali – senza riuscire a ricomporla.
Oggi questa ricomposizione non soltanto è impossibile ma forse non la cerca più nessuno. Tony Blair, ex premier che pur fuori dalla politica attiva modella le proposte dei moderati, non fa che parlare di voto tattico. Non dice, Blair, di non votare il Labour, anche se ogni volta si premura di sottolineare che le idee del partito in questa stagione sono lontane anni luce dalle sue quando ne era il leader, ma dice di votare in modo tattico il candidato che, nella propria circoscrizione, può fare da argine alla Brexit. Corbyn non vuole parlare del divorzio dall’Ue, si è già perso a sufficienza nella sua incoerenza su questo tema sempre sul ciglio del suo istintivo antieuropeismo: Corbyn parla della riforma del servizio sanitario, delle nazionalizzazioni, delle tasse ai milionari, dei 400 miliardi di sterline di investimento che potranno riscattare quei “tanti” che sono stati vessati dai privilegi di “pochi”. Per il governo laburista che Corbyn vuole guidare la Brexit è un incidente che si risolverà in qualche modo, ma ha obiettivi più grandi, più dirompenti per un paese storicamente votato al liberalismo. Blair, da parte sua, riduce il tema alla Brexit, perché questa è l’urgenza, ma intanto con i suoi appelli al voto tattico, ad andare oltre il tribalismo e l’appartenenza, sposta l’attenzione su quello che verrà dopo, se poi il Labour, questo Labour corbyniano, non dovesse vincere le elezioni.
Oggi la guerra civile nel partito è vinta da Corbyn, da Momentum, dal comitato centrale e dal sindacato, ma poi c’è la battaglia elettorale contro i Tory e contro i Liberaldemocratici che si stanno ponendo sempre più come alternativa moderata al Labour: se questa è perduta, allora ci sarà un dopo Corbyn. E le frizioni non riguardano soltanto i parlamentari laburisti, che sono in maggioranza anticorbyniani (per questo la deselezione dei candidati e l’imposizione di nuovi è così brutale), ma anche l’elettorato, che lo aveva portato al 40 per cento alle elezioni del 2017 e oggi lo premia molto meno. Per non parlare della mai risolta questione antisemita. Ieri il Jewish Chronicle aveva un titolo a caratteri cubitali che diceva: “Ai nostri amici cittadini inglesi, questa prima pagina non è per i nostri lettori abituali, ma per quelli che non lo sono, cioè i non ebrei, ecco perché”. Il perché è che se gli inglesi sono contro il razzismo ancor prima che contro l’antisemitismo, non possono votare Jeremy Corbyn.
L’appello della comunità ebraica, nettissimo, si mischia con le parole che scappano a molti laburisti, lo strazio di non volere un altro governo guidato da Boris Johnson, l’attuale premier conservatore, ma nemmeno un governo Corbyn. Un ex del Labour già da tempo, Ian Austin, ha scritto sul Times: meglio Johnson che Corbyn, portando all’estremo lo strazio. Ma lui è un ex. Chi non lo è sta cercando alternative, studia i candidati e gli effetti di un voto tattico che sembra l’unica via d’uscita – un compromesso – al radicalismo dei principali partiti. All’appello di Blair fa eco quello della leader dei Lib-dem, la giovane Jo Swinson, che ha già stretto patti elettorali con i Verdi e con i partiti gallesi in sessanta circoscrizioni, è partita sul suo autobus giallo per girare il paese e si pone come l’unica garante di una terza via che, nel paese del bipartitismo, ora balla da sola.
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