La folle indifferenza sul clamoroso manifesto di Macron
L’abisso dell’occidente non è una sciocchezza. Un argine è possibile ma solo ridando cervello all’Europa
Emmanuel Macron ha detto all’Economist cosucce di una certa importanza sulle quali si sta facendo finta di niente: la Nato è in coma cerebrale, e l’articolo 5 dell’Alleanza atlantica sulla mutua difesa è un ferrovecchio; l’Europa è un mercato senza una politica sovrana, un bilancio e una coesione anche militare centralizzata, dunque debole e condannata all’inferiorità in particolare nello sviluppo e nella tecnologia, al di là del tema incandescente della sicurezza; gli Stati Uniti hanno mollato la loro storica funzione di guida e di protezione, e il fenomeno è in atto fin dai tempi di Obama; i nazionalpopulismi e i poteri autoritari sono destinati a prevalere se le cose non cambiano in tempi certi e se non muta la relazione con la Russia di Putin (“non è più vero che i nemici dei miei amici sono i miei nemici”). Tutti hanno dovuto ammettere che, protetto dal guscio istituzionale della V Repubblica, il presidente francese ha sfoderato una verve alla De Gaulle e ha opposto una visione forte e chiara al protezionismo isolazionista di Trump, alla deriva insondabile della Brexit, alle incertezze del fianco meridionale dell’Unione. Il testo della lunga intervista è a disposizione, e fa impressione per radicalità dei giudizi e struttura dell’argomentazione, ma la legge dei media ha mandato in onda soltanto il giudizio liquidatorio sulla Nato, considerato a Bruxelles e in Germania, per non parlare della Polonia, come un gesto spericolato di velleitario egemonismo francese, con qualche glossa occasionale sul rigetto di nuova estensione dell’Unione a Macedonia del nord e Albania. Nessuno è restato indifferente ai ragionamenti impegnativi dell’Eliseo, ma la sottovalutazione di quel manifesto resta incauta, è il brutto sintomo di una insufficienza cerebrale che non è solo dell’alleanza militare.
Macron è un intellettuale e un tecnocrate capace di padroneggiare i dossier, e questo intellettualismo e tecnicismo di per sé suscita diffidenza, scetticismo e perfino incredulità, vista la sproporzione tra la diagnosi letale sull’occidente, a trent’anni dalla fine della Guerra fredda e a quasi vent’anni dall’11 settembre, e la capacità di indicare soluzioni, che è il marchio dell’uomo di stato. Macron per la verità ci prova, quando spiega i termini controversi della nuova difesa collettiva in Europa, Gran Bretagna in uscita compresa, o quando mette in evidenza il senso esistenziale del conflitto intorno alle tecnologie, ai dati, all’intelligenza artificiale, o quando fa di un vero bilancio dell’Unione, e di una stagione di coesione e centralizzazione, l’unica leva possibile per rispondere al disagio della classe media e alla domanda di sovranità contro le incertezze della globalizzazione dei mercati.
Ma non fa davvero notizia nemmeno la bomba di un presidente francese a suo modo sovranista, che dissotterra il vecchio sogno o incubo di un superstato europeo e con esso il mito gaullista di un orizzonte dall’Atlantico agli Urali. Eppure quel testo dovrebbe essere sminuzzato più che analizzato, compreso nei dettagli di geografia e di storia più che recepito in vaghi termini diplomatici, e quelle parole lette bene non appaiono divagazioni su un problema, ma il cuore del problema. Macron ha superato, e solo in parte, la grande crisi alla francese dell’insurrezione dei gilet gialli, e affronta in un clima socialmente tempestoso la grogne del suo popolo per tradizione inquieto e rivoltoso. Sull’immigrazione e l’integrazione è alle prese con il dramma della interpretazione della laïcité alla luce della riconquista dei territori perduti della République e della necessaria coesistenza delle diversità etniche e religiose. Se il suo stile è l’analisi intellettuale, non lo è la sostanza del suo potere e delle scommesse di fronte alle quali lo pone la comune condizione di febbrilità del contesto europeo lungo l’asse franco-tedesco. Finora non si era sentita una risposta persuasiva, almeno nelle intenzioni, alla cinica decretazione di fallimento dichiarata da Putin in proposito del liberalismo e della democrazia occidentale, per come sono usciti dalla “più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”. La Francia, una voce non irrilevante nel percorso degli ultimi secoli di modernità, ci dice per bocca del suo monarca costituzionale repubblicano che l’occidente e la democrazia liberale di cui parliamo con toni di nostalgia e di ostalgia nelle celebrazioni del Muro di Berlino non sono stanchi, non sono arrancanti, non hanno comprensibili e ordinari problemi di nuova architettura istituzionale e politica, sono proprio un organismo in decomposizione, sull’orlo di un abisso. Un argine è possibile, e ci vorrà del tempo, ma si deve cominciare da subito a costruirlo.