Trump non se ne abbia a male, ma la Groenlandia la stanno comprando i cinesi
Le avances di Pechino, i populisti danesi e l’aeroporto conteso. Le ragioni per cui la Cina vuole estendere la sua area di influenza sul nord del pianeta
Milano. Ricordate quando, la scorsa estate, Donald Trump, con l’audace tracotanza che lo distingue, aveva offerto alla Danimarca di comprarsi la Groenlandia? La cosa durò un paio di giorni, visto che la Danimarca rispose un po’ stranita “no grazie” e la cosa finì lì. Nonostante l’improbabilità della proposta di Trump, l’ipotesi che qualcuno compri la Groenlandia non è così remota. Anzi. E’ decisamente sul tavolo. Donald Trump l’aveva semplificata un po’ troppo: comprare un paese non significa (come ai tempi dell’acquisto della Lousiana dalla Francia) comprarne la terra, ma le reti, le infrastrutture, gli interessi. La Cina questo lo sa, è così sta facendo.
Le ragioni per cui Pechino vuole estendere la sua area di influenza sul nord del pianeta sono preclare e parecchio comprensibili. In primo luogo le materie prime (soprattutto petrolio e gas). Oggi sono sepolti dal ghiaccio ma, prima o poi, il ghiaccio si scioglierà e tutto quel tesoro sarà a disposizione di chi sarà pronto a prenderlo. Poi, le vie di comunicazione: una volta che il cambiamento climatico avrà tolto di mezzo il ghiaccio, il globo sarà navigabile anche in verticale non solo in orizzontale, riducendo di un terzo i tempi e i costi di navigazione. Ora, dato che le ragioni per cui la Cina vuole sedere al tavolo di questa prevista cuccagna sono più che valide, quel che le serve è un ruolo, un titolo di legittimità. Detto fatto. Negli ultimi anni Pechino se ne è guadagnati quattro. Il primo, la ricerca scientifica, con due osservatori, uno alle Svalbard, l’altro in Islanda. Il secondo, trasporti e commerci: ci sta lavorando il gigante navale Cosco che ha annunciato un piano di circumnavigazione dell’artico con navi rompighiaccio. Il terzo, diplomatico: la Cina è stata abile nel volgere a proprio favore la rottura dei rapporti tra Europa e Russia e a diventare partner privilegiato di Mosca e dunque del più grande paese artico del mondo. Il quarto, ambientale: nonostante la Cina non abbia nessuno sbocco sul Polo nord, si è autoproclamata “stato quasi-artico”, dicendo di voler proteggere e tutelare l’ecosistema della regione. Dunque c’è tutto: ricerca, commercio, diplomazia, ambiente. A questo punto manca solo un luogo fisico sul quale ergere la propria bandiera e dire “ehi, questa è Cina”. E questo luogo fisico, non se ne abbia a male Donald Trump, potrebbe essere la Groenlandia.
L’isola (attualmente danese, ma con uno statuto ibrido di parziale autonomia che le consente per esempio di avere un suo governo e di non essere parte dell’Unione europea) ha tutte le caratteristiche per diventare terra di conquista cinese. Tanto per cominciare è praticamente disabitata (50 mila persone per 2 milioni di chilometri quadrati). Poi, per quanto siano pochi, i suoi abitanti sono politicamente divisi tra chi (il partito di governo Siumut) sostiene che l’autonomia dalla Danimarca debba essere solo parziale e chi invece vuole una più netta indipendenza e nuove alleanze non europee. Poi c’è il fattore più importante di tutti: la Groenlandia si sta affacciando solo ora alla modernità e ha fretta di farne parte a pieno titolo. Per questo è in cerca costante di finanziamenti. E a chi chiederli se non alla Cina?
Questi tre aspetti della politica attuale della Groenlandia si ritrovano riassunti nella vicenda dei nuovi aeroporti. A oggi molte città hanno un loro piccolo aeroporto ma solo Kangerlussuaq ha uno scalo internazionale. Il governo locale vorrebbe che ne sia costruito uno nuovo, a Qaqortoq, e che vengano ampliati quelli esistenti di Illullisat e Nuuk. Ottima idea, solo che servono soldi e costruttori. I primi a farsi avanti sono stati i cinesi di Cccc (Chinese Communication Construction Company) che si sono presentati con il loro progetto e la sola richiesta, in cambio della costruzione chiavi in mano dei tre scali, di poterli usare per i loro trasporti ed eventualmente (ma era scritto nella clausole in piccolo) anche come base militare. La Groenlandia aveva detto di sì, senza pensarci troppo. Poi però ci si è messa di mezzo la Danimarca che ha proposto di finanziare da sé i progetti, senza bisogno di coinvolgere partner asiatici (che infatti si sono ritirati). La cosa però non è stata priva di conseguenze, tanto che il leader del partito indipendentista e populista Naleraq, Hans Enoksen, è uscito per protesta dalla maggioranza di governo e ha dichiarato che i danesi “hanno messo in dubbio la capacità dei groenlandesi di decidere da soli”. Il che probabilmente è vero. E lascia intendere che, avessero potuto far da soli, i groenlandesi avrebbero scelto la bandiera cinese, invece di quella danese.