Di Maio il pechinese
I Cinque stelle non sbagliano mai il test di fedeltà con la Cina di Xi
Il ministro 5s non va al G20 (giapponesi delusi), Casaleggio va a braccetto con Huawei e su Hong Kong i grillini tacciono
Tokyo. Se la Lega ha come paese di riferimento la Russia, quello dei Cinque stelle è senz’altro la Cina. Quasi tutti i vertici del Movimento sembrano da mesi impegnati a promuovere il modello cinese senza mai affrontare il dibattito, schivando ogni domanda e responsabilità – che riguardi i valori comuni: dai diritti umani al sistema democratico. La posizione dei Cinque stelle coincide con quella cinese sia quando parliamo di Xinjiang – mentre il New York Times ha appena confermato, con la pubblicazione di documenti riservati, quello che da anni ong e osservatori dicevano sulla repressione e l’internamento di massa degli uiguri – sia quando parliamo di Hong Kong – mentre la polizia ormai fuori controllo entra nelle università in una escalation di violenza inarrestabile. Allo stesso tempo si nota anche una sorprendente tenacia da parte del M5s nel promuovere i colossi cinesi in Italia– è il caso di Huawei, ma non solo. Per Pechino è un bengodi, perché la politica estera cinese funziona per test di fedeltà.
Partiamo dalla fine, e cioè dalla notizia di oggi. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annullato la sua partecipazione al G20 dei ministri degli Esteri che si terrà a Nagoya, in Giappone, venerdì e sabato prossimi.
Ci sarà al suo posto un’altra punta dei Cinque stelle, il viceministro della Farnesina Emanuela Del Re. Le ragioni che ha dato Di Maio per il forfait riguardano l’emergenza Venezia e la necessità, per il leader del Movimento, di restare in Italia. Per la nostra politica interna questo è il segno, piuttosto facile da intuire, che fare il leader politico è difficilmente compatibile con il lavoro di ministro degli Esteri. Ma è un segnale importante anche dal punto di vista diplomatico: le varie riunioni del G20 servono a far funzionare la macchina del multilateralismo, non sono spot politici, sono i luoghi dove la politica si decide. E’ un segnale grave soprattutto perché a ospitare il G20 quest’anno è il Giappone, un paese strategico per l’Italia: non solo è un nostro collega al G7, e quindi tradizionale alleato, ma questo è il primo anno dopo l’entrata in vigore del trattato commerciale tra Unione europea e Giappone, una mezza rivoluzione per il nostro export. Di Maio firmò questo trattato di libero scambio nel 2018 tra molte critiche (sia dai protezionisti sia dai liberisti, perché contestualmente si era opposto a Ceta e Ttip) ma poi non l’ha più promosso, mentre sembra molto impegnato sul fronte della pubblicità dell’agroalimentare con la Cina. Questo sarebbe stato il primo viaggio in Giappone del ministro-leader dei Cinque stelle, ed è strano che sia stato annullato – fanno notare fonti giapponesi – visto che due settimane fa Di Maio ha partecipato a “un evento di secondo piano” a Shanghai. Un evento di secondo piano per la politica internazionale, ma molto importante per la propaganda cinese. E infatti Di Maio, che è anche l’uomo che ha messo la firma sul memorandum d’intesa sulla Via della Seta, è il secondo anno di seguito che vi partecipa.
C’è poi la questione Hong Kong: nell’agenda del bilaterale con l’omologo giapponese ci sarebbe dovuta essere anche la situazione dell’ex colonia inglese. Di Maio è infatti l’unico leader di un paese democratico che ha parlato soltanto una volta di Hong Kong e lo ha fatto usando le stesse parole di un funzionario cinese: sono affari interni della Cina. Per il Giappone, invece, Hong Kong è una questione importante, non solo per il business ma anche perché Tokyo da anni gestisce il suo rapporto con Pechino cercando di stabilire dei limiti invalicabili. E a Hong Kong quel limite è stato superato. Del resto all’inizio di luglio, nelle prime settimane delle manifestazioni, era stato il fedelissimo di Di Maio, il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, a volare a Hong Kong senza dire una parola sulle proteste. Di Stefano è anche la persona che aveva confermato la sua presenza all’inaugurazione, un mese fa, dei nuovi uffici romani di Huawei. Poi qualcuno gli ha suggerito di restare a casa, vista la delicatezza della materia. Al suo posto, in rappresentanza del Movimento, è andata la sindaca di Roma Virginia Raggi. Erano gli stessi giorni in cui il Foglio pubblicava i documenti su una policy interna di Huawei che vieta ai dipendenti di esprimere opinioni politiche, una regola che contrasta la legge sul lavoro e i princìpi fondanti della Costituzione. A una richiesta di commento sulla vicenda, il ministro del Lavoro, la pentastellata Nunzia Catalfo, non ha mai risposto. Ma è soprattutto la Casaleggio Associati a tessere i rapporti con le telecomunicazioni cinesi: il 14 novembre scorso il ceo di Huawei Italia, Thomas Miao, ha pronunciato il discorso d’apertura dell’evento “Smart company” della Casaleggio.
E sullo Xinjiang? Nelle stesse ore in cui il New York Times faceva uscire un’inchiesta incriminante per il presidente Xi Jinping, il blog di Beppe Grillo – il primo a pubblicare anche gli scritti dell’ex sottosegretario leghista Michele Geraci sul “modello Cina” – pubblicava un articolo a firma di Fabio Massimo Parenti, che scrive sul blog di Beppe Grillo e qualche volta appare perfino sul Global Times (il quotidiano in lingua inglese del Partito comunista cinese). Parenti ci spiega che lui nello Xinjiang c’è stato, una settimana con un tour organizzato, e che tutto quello che le organizzazioni internazionali e ora una documentata inchiesta del New York Times dimostrano – e cioè che il governo di Pechino ha ordinato la repressione e l’internamento di massa delle minoranze nell’area – è solo una “campagna mediatica volta a screditare l’operato del governo cinese”.
Cose dai nostri schermi