L'Iran voleva reprimere le proteste in Iraq ma si ritrova un'ondata in casa
Da Baghdad a Beirut a Teheran i moti popolari sono uno schiaffo in faccia alla strategia di controllo del generale Suleimani. I rapporti segreti e ora pubblici
Roma. Nel momento in cui questo articolo viene scritto il blocco totale di internet in Iran ordinato dal regime ha superato le quaranta ore consecutive. Le ultime notizie delle agenzie parlano di manifestazioni nelle strade di cento città del paese, di tre morti e mille arrestati dopo tre giorni di proteste e poi è arrivato il blackout – per impedire a chi manifesta di organizzarsi e per rallentare la fuoriuscita di notizie dal paese. I video che arrivano grazie alle interruzioni del blocco (ogni ora senza internet danneggia l’economia del paese) sono significativi. Ci sono autostrade paralizzate, perché uno dei modi di protestare è mettere le auto di traverso e bloccare le grandi vie di comunicazione. C’è una donna che strappa uno dei cartelloni della propaganda governativa e sul cartellone c’è scritto in inglese “Down with USA”, abbasso l’America: “Dicono che il nemico è lì, invece il nemico è qui” e intende il regime. C’è anche l’esecuzione da parte della polizia di un manifestante, fermato e ammazzato con un paio di colpi di fucile su un marciapiede nella città di Saveh.
Il blocco di internet è la stessa misura d’emergenza adottata all’inizio di ottobre nel vicino Iraq dove i manifestanti sono scesi nelle strade perché esasperati dall’inefficienza del governo, che loro considerano troppo asservito all’Iran e troppo indifferente alle loro richieste.
“L’Iran tenta di esportare la sua rivoluzione qui in Iraq da decenni – dicono i manifestanti iracheni in piazza a Baghdad e si riferiscono alla rivoluzione khomeinista del 1979 che consegnò l’Iran al potere dei predicatori sciiti – Invece in poche settimane siamo stati noi a esportare la nostra rivoluzione in Iran”. Ci voleva poco. Se gli iracheni sono stanchi delle ingerenze del governo iraniano nei loro affari, dall’altra parte del confine molti iraniani sono da anni sull’orlo permanente di proteste che poi diventano rivolte e scontri duri con le forze di sicurezza. È successo nel 2011, ma allora in piazza c’erano gli studenti bene della Teheran nord e non rappresentavano il paese intero. Finì con una repressione brutale. È successo di nuovo a cavallo del 2017 e 2018 e questa volta erano i ceti più poveri, che non comprendono perché il regime si ostina a spendere risorse enormi per una politica estera molto ambiziosa – che negli anni ha attirato sanzioni internazionali – mentre loro non riescono a trovare beni di prima necessità come le uova. Finì di nuovo con una repressione brutale.
La notizia che ha scatenato questa ondata di proteste è la revoca del sussidio statale per il carburante. In Iran il prezzo della benzina è tenuto basso in modo artificiale dalle casse dello stato, che ne pagano una parte. L’eliminazione del sussidio era stata raccomandata dal Fondo monetario internazionale per rimettere i conti del paese a posto, ma come si diceva la capacità di sopportazione di molti iraniani nei confronti di un governo che vedono corrotto e concentrato su altri temi invece che sui cittadini è esile. Nei video si vedono manifestanti gridare: “Chissenefrega della Palestina” e cose peggiori. Suona come una domanda blasfema in una piazza iraniana, ma è probabile che ovunque succederebbe la stessa cosa se il livello di povertà fosse alto e il governo si ostinasse a portare avanti una politica estera spregiudicata che necessita di molto denaro che è tutto consumato altrove, dall’Iraq alla Siria, dal Libano alla Striscia di Gaza.
Ieri il New York Times e il sito Intercept hanno pubblicato una raccolta enorme di rapporti dell’intelligence iraniana, soprattutto del periodo 2014-2015, che una fonte anonima ha consegnato per la divulgazione e che le due redazioni hanno verificato e tradotto. La quantità di dettagli e informazioni è sbalorditiva ma la storia che ne esce – quella di un Iran che esercita un controllo asfissiante sui vertici politici e dei servizi segreti in Iraq – era già da tempo considerata come un dato di fatto. A scorrere i rapporti c’è un senso di ovvio, come in un giallo in cui il colpevole è il maggiordomo. Le Guardie della rivoluzione del generale iraniano Qassem Suleimani hanno trasformato l’invasione americana del 2003 in Iraq – che rimosse Saddam Hussein – in un’occasione eccellente per colonizzare il paese. Tra i punti che colpiscono c’è il generale dell’intelligence militare irachena che dice agli iraniani di essere pronto a soddisfare qualsiasi loro richiesta e un ex agente iracheno della Cia che passa agli iraniani tutto quello che ha appreso quando lavorava con gli americani: procedure, luoghi, contatti, liste di altre spie. Dai rapporti si scopre che gli iraniani temono che tutte le loro ingerenze finiranno per scatenare il rigetto della gente. Che è quello che stiamo vedendo in questi giorni in Iraq e, in misura minore, anche in Libano.