Un racconto di torture ci mostra perché le proteste a Hong Kong non si fermano
Simon Cheng, ex impiegato del consolato britannico di Hong Kong, racconta i suoi 15 giorni di prigionia in Cina tra privazione del sonno e abusi psicologici
Milano. Lo scorso agosto Simon Cheng, un cittadino di Hong Kong impiegato nel consolato britannico della città, è stato detenuto per 15 giorni dalle autorità cinesi a Shenzhen, la megalopoli dirimpettaia di Hong Kong. Le proteste degli studenti e dei giovani di Hong Kong contro la legge sull’estradizione e per la democrazia andavano avanti da settimane, e sul momento si pensò che la detenzione di Cheng fosse uno dei tanti metodi di pressione indiretta nell’arsenale di Pechino: Cheng è cittadino di Hong Kong, dunque cinese, e non godeva dell’immunità diplomatica, ma il suo arresto era un segnale di non intromissione, specie nei confronti dell’ex padrone coloniale britannico. Cheng fu rilasciato a fine agosto, la polizia cinese disse che era stato arrestato per aver cercato di ingaggiare prostitute e tutti pensarono che fosse una scusa piuttosto banale. Dopo il suo rilascio il giovane impiegato del consolato non volle parlare con i media e nel giro di poco tutti si dimenticarono di lui e tornarono a concentrarsi sulle violenze sempre più gravi a Hong Kong.
Ieri Simon Cheng ha parlato per la prima volta con i media internazionali e ha rivelato che nei suoi 15 giorni di prigionia in Cina è stato torturato. In una serie di interviste, l’ex impiegato del consolato britannico (nel frattempo si è dimesso) ha detto di aver subìto torture fisiche, privazione del sonno, abusi psicologici. Ha detto che le forze di sicurezza cinesi lo hanno costretto a rivelare informazioni riservate e hanno cercato di costringerlo a denunciare che dietro ai disordini di Hong Kong c’era la mano dell’intelligence britannica.
Come in tutti i casi di questo tipo, non c’è modo di verificare in modo indipendente se Cheng dice il vero. Tuttavia, come ha notato il Wall Street Journal, le descrizioni di Cheng combaciano in maniera piuttosto palese con le storie di altri ex detenuti torturati e costretti a false confessioni dalle forze di sicurezza cinesi. Cheng, che ha 29 anni, è stato arrestato lo scorso 8 agosto al rientro a Hong Kong dopo un viaggio in Cina. Sostiene che le forze di sicurezza cinesi lo hanno portato in un centro di detenzione e lo hanno interrogato per ore, chiedendogli del coinvolgimento di Londra nelle proteste a Hong Kong. A partire dal secondo giorno lo hanno tenuto in completo isolamento, e dopo poco sono iniziati gli abusi. Lo hanno privato del sonno e costretto a stare per giornate intere in ginocchio sul pavimento o in posizioni innaturali. Dopo ore sul pavimento, dice Cheng, una guardia arrivava a colpirgli le ginocchia con un bastone appuntito. Vari membri delle forze di sicurezza cinesi lo hanno definito una spia britannica che è “peggio di una merda” e non merita diritti umani. Lo hanno costretto a rivolgersi a loro chiamandoli “signore”, e se si dimenticava lo schiaffeggiavano. I membri delle forze di sicurezza cinesi, sostiene Cheng, lo hanno costretto a rivelare l’identità di dipendenti britannici del consolato che potevano avere incarichi militari, a descrivere la mappa delle stanze dell’edificio consolare e a identificare alcuni leader della protesta a Hong Kong. Con insistenza, i carcerieri chiedevano a Cheng di accusare il Regno Unito di interferenza per i fatti di Hong Kong, sostiene lui. Dopo 15 giorni, probabilmente a causa del clamore mediatico che aveva avuto la notizia del suo arresto, Cheng è stato rilasciato. Ora ha abbandonato Hong Kong e ha fatto richiesta di asilo in paesi che non ha voluto rivelare ai giornalisti.
Dopo la rivelazione delle torture, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese; un portavoce del ministero degli Esteri di Pechino ha fatto sapere che la questione non è materia diplomatica. Ma il racconto delle torture subìte da Simon Cheng in detenzione in Cina spiega in maniera molto chiara le ragioni delle proteste a Hong Kong. Perché migliaia di ragazzi e non solo si scontrano da mesi con la polizia, in azioni anche violente? Perché decine di loro sono ancora asserragliati e assediati in un campus universitario? Per evitare che possa succedere a loro e agli altri cittadini di Hong Kong quello che è successo a Simon Cheng.
I cedimenti dello stato di diritto, nella città semiautonoma, sono già evidenti. Negli scorsi giorni l’Alta corte della città ha negato una richiesta di espatrio a Joshua Wong, il più famoso degli attivisti di Hong Kong, che avrebbe dovuto viaggiare in Europa e, tra le altre cose, partecipare a un evento organizzato a Milano dalla Fondazione Feltrinelli. Negli stessi giorni il Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, l’organo legislativo dello stato cinese, ha condannato la stessa Alta corte per aver annullato il divieto di indossare maschere promulgato dal governo locale. Secondo il Comitato permanente, i tribunali di Hong Kong non godono di autonomia sufficiente per prendere decisioni di carattere costituzionale.