Il crollo dei simboli del khomeinismo
Il regime dell’Iran reprime le rivolte con metodi fascistoidi. Ma gli iraniani non hanno più timore di tutta l’ideologia che li circonda da quarant’anni, la deridono e quando possono la distruggono. Ed è così anche negli altri paesi in rivolta
Roma. Ieri la connessione internet è tornata in alcune parti dell’Iran, circa il 10 per cento del paese, ed è il segno che le rivolte popolari che sono durate per sei giorni hanno rallentato e sono di nuovo considerate in qualche modo controllabili. Per il momento, almeno. Il regime dell’Iran stacca internet ogni volta che si sente minacciato per impedire che i rivoltosi si organizzino e si coalizzino assieme e così la connessione internet – o la sua mancanza – è diventata l’unità di misura dell’intensità delle sommosse. In questi giorni era superiore al novantacinque per cento, grazie anche al fatto che in questi anni il governo del cosiddetto “moderato” Hassan Rohani ha spostato internet su una piattaforma nazionale centralizzata che di fatto permette alle autorità di tenere il dito sulla connessione di un paese da più di ottanta milioni di persone e di staccarla quando vuole. Siti con notizie internazionali e posta elettronica sono i primi a diventare inaccessibili. Il sistema fu pensato nel 2009 dopo le proteste della cosiddetta Onda verde e permette di far andare avanti alcuni segmenti della nazione, come siti di notizie nazionali controllati dallo stato oppure le transazioni bancarie, per mitigare un poco il danno economico (che comunque resta rovinoso). E’ una delle tante facce della distopia iraniana, un paese dove i leader scrivono molto su Twitter che però è ufficialmente vietato ai cittadini e dove gli iraniani tirano avanti nel grigiore di un’economia asfissiata mentre i rampolli dell’establishment della rivoluzione del 1979 vivono all’estero e pubblicano sui social foto e video di divertimenti pazzi.
Anche se questa ondata di rivolte si stesse indebolendo e stesse per spegnersi come è successo a quelle prima, il crollo dei simboli del regime è il fatto importante e definitivo a cui abbiamo assistito – grazie ai video sfuggiti al blocco di internet. Tutto quello che dovrebbe essere riverito e temuto nella Repubblica islamica dell’Iran dopo quarant’anni di indottrinamento khomeinista è invece il bersaglio della rabbia e della derisione di una massa enorme di iraniani. Le immagini degli ayatollah sono divelte o bruciate, i cartelloni della propaganda sono strappati, i murales sono sfregiati, le sedi della Banca centrale assaltate, il monumento all’anello dell’ayatollah Khomeini è stato coperto di benzina e incendiato. Khomeini, padre fondatore di questo Iran. Le donne nelle proteste si tolgono il velo, che ormai da anni è diventato il gesto di sfida politica per eccellenza. E le cause che in teoria dovrebbero rendere fieri i cittadini iraniani come la guerra permanente contro Israele al fianco dei palestinesi o l’alleanza in Siria con il governo di Bashar el Assad sono considerate follie senza senso. “Non ci sono soldi, non c’è benzina, all’inferno la Palestina” è uno degli slogan della piazza. L’obiettivo non sono i palestinesi, ma i vertici dell’Iran che hanno deciso che il paese deve bruciare le sue risorse per espandere il suo potere nella regione.
Secondo un rapporto uscito due giorni fa, tra il 2011 e il 2018 l’Iran ha speso sedici miliardi di dollari per pagare i suoi alleati all’estero, come il gruppo Hezbollah in Libano. Sostenere che la gente protesta soltanto per l’improvviso aumento del prezzo della benzina è riduttivo, ci sono strati di rancore vulcanico contro la classe religiosa e militare al governo che vengono fuori dopo decenni di repressione. La cosa non è sfuggita al regime, che infatti non parla di proteste contro il caro benzina ma di un complotto contro il paese e di combattimenti sul “fronte della sicurezza”, come ha detto l’ayatollah Khamenei, e di “un piccolo gruppo di soldati nemici”, come ha detto il presidente Rohani. Pretendere che l’attacco sistematico ai simboli del regime sia il frutto di un’arrabbiatura da carovita sarebbe bizzarro anche per loro, la gente vede e capisce. C’è insofferenza contro il regime.
Non c’è un numero ufficiale dei morti. Amnesty dice che sono più di cento, altre fonti parlano del doppio ma non c’è modo di verificare. I video che sono filtrati fino al mondo esterno mostrano gruppi di centinaia di manifestanti in molte città diverse che cantano contro il governo ma sono dispersi a colpi di fucile da cecchini appostati sui tetti oppure sono cacciati nelle strade dalle milizie armate che si tengono sempre pronte proprio per questo scopo, la controinsurrezione, e sono le forze bassij e le Guardie della rivoluzione. I guardiani del regime sparano contro gli assembramenti e poi dopo qualche ora vanno a prendere i feriti negli ospedali. Ma il ritmo di queste rivolte negli anni è in accelerazione, in Iran c’è un’instabilità strutturale, prima passavano intervalli di tre-quattro anni fra un’eruzione e l’altra, adesso ogni anno ha la sua rivolta. Per non menzionare lo stillicidio di proteste e grandi scioperi che scandisce la vita del paese, mese dopo mese – a volte si fermano i camionisti, a volte gli insegnanti, a volte studenti oppure i pensionati. E poi ci sono le tensioni etniche. Tra i posti dove le forze di sicurezza sono state più brutali ci sono il Kurdistan iraniano e il Khuzestan, dove c’è una minoranza araba – sono entrambe aree che da sempre malsopportano il controllo di Teheran. La violenza dall’alto blocca in pochi giorni le proteste e la maggioranza silenziosa non prende posizione, ma la tenuta ideologica di uno dei paesi più ideologizzati del mondo non è mai sembrata così debole.