Il green deal cinese è business, ma solo Macron l'ha capito
Mentre noi litighiamo sulle percentuali di emissioni, la Cina produce energia elettrica a carbone quanto tutta l’Europa
Roma. La Cina sta costruendo o attivando così tante nuove centrali elettriche a carbone che da sole raggiungono praticamente la produzione dell’intera Europa. Le nuove centrali elettriche cinesi, la cui messa in funzione è autorizzata soprattutto dai governi locali, arrivano a produrre complessivamente 148 gigawatt, mentre tutte le centrali europee attualmente in funzione producono 149 gigawatt di energia. La notizia arriva da un report pubblicato in settimana dall’ong americana Global Energy Monitor, che ha analizzato le immagini satellitari e ha previsto che Pechino, se dovesse continuare con una politica più elastica sulle centrali a carbone, entro il 2035 potrebbe superare i limiti di emissioni stabiliti dagli accordi di Parigi. Mentre paesi come il Regno Unito hanno annunciato di voler chiudere tutte le centrali a carbone entro il 2025, la Cina continua a dipendere dal carbone per il 59 per cento del suo fabbisogno energetico, e gli sforzi per ridurlo sono troppo lenti. La produzione globale di energia da carbone è cresciuta nell’ultimo anno di 35 gigawatt, nonostante tutti i paesi – tranne la Cina – abbiano contribuito a una diminuzione di 8,1 gigawatt. Nell’ultima settimana di questo report si è parlato molto, soprattutto perché ha scatenato gli ambientalisti e gli “integralisti”, diciamo così, dell’accordo sul clima. Ma molto di più ha scatenato i falchi anticinesi. Da tempo Pechino è accusata di fare il doppio gioco, e cioè di promuovere il green deal a parole ma poi, nei fatti, pur di assicurarsi la necessaria crescita economica e finanziare i giganteschi progetti lanciati nell’ultimo decennio, di continuare a inquinare. L’esempio di scuola è che la Cina finanzia centrali a carbone anche all’estero, per circa il 25 per cento delle nuove costruzioni. E quindi, Pechino ci sta fregando? Il problema, come spesso succede in questi casi, è ben più complesso.
Mentre il presidente americano Donald Trump, due anni fa, annunciava l’uscita dell’America dagli accordi di Parigi sul clima, il presidente cinese Xi Jinping rispolverava una delle espressioni più famose della politica contemporanea cinese: la “civiltà ecologica”. L’aveva già usata nel 2007 l’allora presidente Hu Jintao, ma è con Xi, e con il suo sogno della Nuova Cina che l’espressione ha avuto una svolta pragmatica. Parliamo di un vero piano ecologista fatto di “montagne verdi che diventano oro”. La Cina di Xi è forse l’unico paese al mondo ad aver capito che una politica ecologista può andare di pari passo con lo sviluppo e la modernizzazione. Che l’ecologismo non è l’ideologia occidentale della decrescita felice, tutt’altro. L’ambiente è un asset, dice Xi, e va tutelato. Il problema è che la Cina è grande come l’Europa intera, e il dibattito interno sulle priorità è vivace. Di sicuro, ci sono gli obiettivi fissati dal governo centrale di Pechino, e dalla compensazione. Il 20 per cento del consumo totale d’energia cinese arriva dal settore delle costruzioni, ma per esempio, la città di Pechino – in pieno boom edilizio – entro il prossimo anno si è assicurata trecentomila metri quadri di edifici praticamente a zero emissioni. La Cina è inoltre diventata il più grande mercato di energie rinnovabili. Grazie al sostegno del governo e la campagna anti-inquinamento, l’energia da fonti rinnovabili è cresciuta del 14 per cento rispetto allo scorso anno. Durante la sua ultima visita a Pechino, all’inizio del mese, il presidente francese Emmanuel Macron (lo stesso del “la Cina è un rivale sistemico”) ha firmato con il suo omologo cinese Xi Jinping hanno firmato un testo in cui dichiarano “irreversibili” gli accordi di Parigi. E Macron ha aggiunto che questa collaborazione sul clima, sull’ecologia e sulla biodiversità, tra Europa e Cina, è “decisiva”. Il modello di dialogo e di engagement di Macron con la Cina è vincente: gli accordi commerciali ci sono, e anche quelli strategici. L’ecologia è business di sviluppo, altro che decrescita.
Dalle piazze ai palazzi