Un edificio bombardato nella città di Douma, Siria (Bassam Khabieh/Reuters)

La Repubblica delle bufale

Daniele Raineri

Per Wikileaks il rapporto sull’attacco chimico a Douma in Siria è stato manipolato. Non è vero, ma i media tradizionali fanno da rampa di lancio per le fake news

Domenica il sito di Repubblica ha pubblicato un pezzo intitolato: “Wikileaks, la verità sull’attacco chimico a Douma in Siria”. Ora ci occuperemo di vedere cosa tenta di sostenere e perché l’autore del pezzo ha preso una cantonata. Prima però una premessa che è molto legata al pezzo.

  

La settimana scorsa lo Stanford Internet Observatory ha pubblicato uno studio su come funzionano le operazioni dei servizi segreti militari russi (GRU) per spargere disinformazione sui social media e in particolare su Facebook. All’osservatorio di Stanford lavora anche Alex Stamos, ex responsabile della sicurezza di Facebook, tanto per sottolineare che quelli che hanno redatto lo studio sanno di cosa parlano. Ebbene, il rapporto spiega tra le altre cose che i media tradizionali hanno un ruolo molto importante nel lanciare la disinformazione e che i social media da soli non basterebbero a convincere le persone. I media fanno da precursore, insinuano, aiutano certe narrazioni a circolare anche se in forma depotenziata, preparano i lettori e gli spettatori, dissodano le teste per il lavoro della propaganda. A quel punto i social media hanno un gioco più facile a spargere narrazioni false, a colpire e delegittimare gli avversari, a far circolare materiale aggiuntivo – e gli utenti già riscaldati sono più recettivi. I media non sono innocenti, danno la spinta iniziale. Conferiscono a un argomento quel minimo di autorevolezza che serve da base – a cui poi i disinformatori aggiungono altri strati e in modo più spregiudicato. Che è la ragione, dice lo studio, per cui i servizi russi hanno creato oppure infiltrato una vasta gamma di “siti di informazione” che pubblicano “notizie” soprattutto in inglese, a volte con le firme di “giornalisti” che non esistono nella realtà ma sono soltanto un nome falso su una pagina elettronica – “notizie” che poi a loro volta sono rilanciate da falsi profili di utenti sui social media. Ecco, in questo contesto dev’essere una grande soddisfazione per chi lavora nella disinformazione quando un grande media – autentico e con un seguito enorme – partecipa di sua spontanea iniziativa.

  

Il pezzo apparso sul sito di Repubblica si basa su una lettera del del 22 giugno 2018 di un dipendente dell’Opcw, l’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, che per ora si fa chiamare “Alex”. La lettera è stata pubblicata nel fine settimana dal sito Wikileaks. Il dipendente nella lettera sostiene che il rapporto dell’Opcw su una strage con armi chimiche avvenuta nell’aprile 2018 a Douma in Siria, appena fuori dalla capitale Damasco, sarebbe stato modificato in alcuni passaggi importanti e altri passaggi sarebbero stati omessi e che quindi fornirebbe una rappresentazione scorretta di quello che è avvenuto.

  

Se le cose stessero davvero così sarebbe una notizia esplosiva. Chi avrebbe modificato il rapporto? E perché lo avrebbe fatto? E infatti il pezzo di Repubblica si chiude con un’intimazione all’Opcw a rivelare la verità:

 

“… Lunedì l’Opac terrà la conferenza di tutti i suoi Paesi membri a L’Aia: l’Organizzazione premio Nobel per la Pace 2013 farà chiarezza sulle gravi accuse del whistleblower, dopo questa email?”.

Ma il pezzo ignora che che l’Opcw ha pubblicato due rapporti sulla strage di Douma. Il primo il 26 luglio 2018, di 26 pagine, che non era considerato definitivo – infatti fu definito ad interim – e doveva soltanto spiegare le attività della missione a Douma dell’Opcw fino a quel punto, quindi nelle poche settimane trascorse dal massacro. E poi c’è il secondo rapporto, quello finale di 105 pagine, che è stato pubblicato il 1° marzo 2019 e tra le altre cose tiene conto di tutte le obiezioni sollevate dalla lettera del dipendente di nove mesi prima. La lettera del dipendente risale a giugno quando circolavano dentro l’Opcw alcune bozze del primo rapporto, quello ad interim, e si riferisce a quelle e non al rapporto finale (entrambi i rapporti, sia quello ad interim sia quello finale, sono diversi dalle bozze discusse nella lettera). L’accusa del pezzo di Repubblica è che l’Opcw avrebbe insabbiato alcuni elementi rilevati da un dipendente dell’Opcw. Ma non c’è alcun insabbiamento, perché il rapporto finale contiene punto per punto – oppure risponde a – tutti gli elementi della lettera. Chi ha scritto il pezzo giornalistico non ha letto il rapporto finale pubblicato dall’Opcw a marzo di quest’anno. Il che spiega perché questo presunto scoop esplosivo di Wikileaks è stato ripreso da pochi, come l’inglese Daily Mail – che non è il giornale più affidabile del Regno Unito – e il quindicinale islandese Stundin. E in Italia dal sito di Repubblica, che nel frattempo ha cambiato il titolo del pezzo. Non è più “Wikileaks, la verità sull’attacco chimico a Douma, in Siria”, ma “Wikileaks, nuove rivelazioni sull’attacco chimico a Douma, in Siria”. Wikileaks ha annunciato anche una partnership con Der Spiegel in Germania (ma al momento della stesura di questo articolo chi scrive non aveva trovato il pezzo sul sito dello Spiegel).

I primi a constatare il problema – quindi che la lettera di giugno 2018 è stata superata dal rapporto finale di marzo 2019 – sono stati Nick Waters del sito Bellingcat, specializzato in investigazioni giornalistiche, e Brian Whitaker, di un altro sito specializzato che si chiama Al Bab. L’autore del pezzo su Repubblica risponde su Twitter che Bellingcat “è arrogante e pretende di saperne di più di un ispettore dell’Opcw sul campo” ma non dice nulla sul rapporto finale dell’Opcw – non di un ispettore: di tutto l’Opcw – pubblicato quest’anno.

Una delle cose notevoli del pezzo è l’incipit:

“E’ un episodio che poteva far sprofondare il mondo in una nuova guerra in stile Iraq, innescata dalle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam”.

Ora, chi in questi otto anni ha seguito la storia della guerra civile in Siria sa che è anche la storia della decisione americana di evitare un intervento diretto. L’Amministrazione Obama nel luglio 2012 avvertì il regime siriano che l’uso di armi chimiche contro i civili era “la linea rossa” che non doveva essere superata, altrimenti l’America avrebbe risposto con un’azione militare. Ma quando nell’agosto 2013 un attacco con l’agente nervino uccise più di mille civili alla periferia di Damasco il presidente americano Barack Obama cambiò idea, rinunciò all’intervento militare e in collaborazione con la Russia costrinse la Siria a consegnare il suo arsenale di armi chimiche. E’ uno dei fatti più conosciuti del conflitto – anche perché la Siria in realtà non consegnò l’intero arsenale, come si scoprì negli anni seguenti. Dopo Obama venne Trump, che ha fatto della sua voglia di non occuparsi della Siria una bandiera politica. Nell’aprile 2017, quando un aereo del regime siriano sganciò una bomba con agente nervino sul villaggio di Khan Sheykoun nel nord della Siria, il presidente americano per differenziarsi dal predecessore Obama ordinò un raid missilistico di rappresaglia contro l’aeroporto da cui era decollato il velivolo – che i siriani evacuarono in fretta e furia e quasi del tutto. Il risultato fu che i cinquantanove missili Tomahawk americani uccisero sei soldati siriani e danneggiarono le piste per qualche mese al costo complessivo di più di cento milioni di dollari. L’anno seguente ci fu una replica dello stesso schema. Dopo la strage a Douma, Trump ordinò un raid contro un centro dove i siriani avevano sviluppato il loro arsenale chimico. Quella seconda volta il bersaglio fu evacuato del tutto in anticipo e non ci fu nemmeno una vittima. Per gli americani fu poco più di un’esercitazione che durò sessanta minuti, per i siriani fu come assistere a una demolizione controllata. Una guerra “in stile Iraq” non è mai stata presa in considerazione. In Iraq nel 2003 le armi chimiche non c’erano ma ci fu un’invasione americana che al suo picco contò centosessantamila uomini. In Siria le armi chimiche ci sono ma l’America si guarda bene dall’invadere. Oggi un contingente di circa seicento soldati americani controlla la zona dei pozzi di petrolio nella regione orientale del paese assieme ai curdi, ma nel 2018 li controllava già quindi non aveva bisogno di alcun pretesto per arrivare lì. Inoltre l’idea che l’Amministrazione Trump si farebbe convincere oppure no da un rapporto dell’Opcw – un’organizzazione internazionale che fa capo alle Nazioni Unite ed è stata premiata con il Nobel per la Pace – a fare oppure non fare una qualsiasi cosa non trova conferme nei tre anni di mandato che abbiamo osservato fino a qui. Non si capisce poi cosa s’intende quando si parla del rischio di “far sprofondare il mondo in una nuova guerra”. In Siria ci sono multipli fronti di guerra dal 2011 – con il coinvolgimento di molti paesi stranieri – e hanno causato la morte di più di mezzo milione di persone.

Il pezzo a giudicare dal titolo e dal contenuto è formattato già in partenza per circolare nella galassia rossobruna dei difensori del presidente siriano Bashar el Assad che non vede l’ora che spunti una verità alternativa a smentire l’uso di armi chimiche da parte del regime sui civili. Come se quella fosse la singola parte più importante di un conflitto complesso che ha visto ogni genere di atrocità e ha riflessi su tutto il resto del mondo. Mercoledì 20 novembre due missili balistici lanciati dal regime hanno colpito una tendopoli di rifugiati nell’area di Idlib e hanno ucciso quindici persone. Che la sequenza giornaliera di violenze in Siria sia considerata meno grave e meno meritevole di attenzione degli attacchi chimici con molte vittime è una questione non risolta.

La parte tecnica

Le obiezioni che preoccupavano molto “Alex” nel giugno 2018 erano tre. La prima è che una bozza del rapporto diceva che era “probabile” che la sostanza tossica fosse fuoriuscita dai due cilindri trovati sul luogo della strage (dopo il 2013 il regime ha usato ordigni molto rudimentali per gli attacchi chimici: spesso sono cilindri di metallo riempiti con sostanze tossiche industriali e una carica esplosiva, e sono lanciati con gli elicotteri). La seconda è che la bozza parlava di livelli “alti” di residui di cloro. La terza è che la bozza usa l’espressione “a reactive chlorine-containing chemical” e invece i termini più accurati sarebbero “a chemical containing reactive chlorine”. E’ una discussione tecnica, del resto stiamo parlando di una mail interna di un team di ispettori mandati ad analizzare dal punto di vista scientifico cosa era successo.

Il rapporto finale del 2019 accoglie tutte queste obiezioni. La prima: c’è scritto che “è possibile”, non più “likely”, che le sostanze tossiche siano uscite dai cilindri. La seconda: non c’è un aggettivo per definire i livelli di residui di cloro ma si nota che in alcuni campioni sono “più alti” che in altri. La terza: i termini usati sono quelli proposti nella lettera da “Alex”. Un rapporto non alterato per una guerra che non c’è stata.

Il dipendente anonimo inoltre nel giugno 2018 segnalava anche tre omissioni. La prima: manca uno studio dei sintomi delle vittime – alcuni possono essere attribuiti al cloro e altri no. Nel rapporto finale lo studio dei sintomi c’è. La seconda: manca uno studio dell’impatto dei cilindri che dimostri che sono stati lanciati dall’alto. Il rapporto finale invece cita “tre analisi indipendenti che sono state condotte da esperti in tre paesi differenti e tutte hanno raggiunto la conclusione che i danni sul luogo degli impatti sono compatibili con la caduta dei cilindri dall’alto”. Infine, “Alex” lamenta che nella bozza manca una bibliografia e nel rapporto finale la bibliografia c’è.

 

Le omissioni nello “scoop”

 

La lettera è stata pubblicata da Wikileaks con tempismo studiato – come molte delle rivelazioni del sito, vedi per esempio le mail rubate dai servizi segreti russi al Partito democratico nel 2016 e messe online poco prima della convention democratica. Proprio la settimana prossima l’Opcw si riunisce nella sede dell’Aja e tra le altre cose deciderà se i rapporti sugli attacchi chimici in Siria devono procedere a fare una cosa che finora non hanno fatto, identificare i responsabili. Per ora i rapporti sono dissertazioni scientifiche che si occupano di stabilire se c’è stato un attacco chimico. Se cominciassero ad attribuire responsabilità le conseguenze politiche sarebbero serie. I paesi occidentali sostengono questa evoluzione e vorrebbero convincere tutti e 193 i membri a votare sì alla nuova regola. Adesso un’ondata di polemiche sulla manipolazione dei rapporti potrebbe condizionare il voto. La Russia da molto tempo ha detto che si oppone e minaccia di tagliare i fondi all’organizzazione. A ottobre 2018 le forze di sicurezza olandesi arrestarono quattro spie dei servizi militari russi che in un parcheggio vicino alla sede dell’Aja tentavano di penetrare nei computer dell’Opcw.

 

E’ molto probabile che ci sia altro materiale a disposizione di Wikileaks, come altre mail e messaggi che potrebbero essere usati nei mesi a venire. Quando si parla dell’attacco chimico di Douma si tende però a non fornire il contesto e a dimenticare mole informazioni. Per almeno dieci giorni russi e siriani impedirono al team dell’Opcw di raggiungere il luogo del massacro e questo fa sospettare che sia stato manipolato prima dell’arrivo degli ispettori. Inoltre ci sono articoli di quei giorni che denunciano come i medici degli ospedali che avevano curato le vittime fossero stati minacciati – del resto lavorano sotto il controllo del regime. Soprattutto, si tende a dimenticare che soltanto alcuni attacchi con armi chimiche in Siria sono stati analizzati a fondo, ma sono stati centinaia. Tobias Schneider e Theresa Lütkefend, due ricercatori di un think tank di Berlino, il Global Public Policy Institute, hanno messo assieme le testimonianze di fonti multiple e a febbraio hanno pubblicato un lungo rapporto che ne conta 336, anche se i due sospettano che il numero reale sia più alto. La stragrande maggioranza di questi attacchi è stata fatta con ordigni rudimentali e con sostanze molto meno letali dell’agente nervino, come appunto il cloro (che è più facile da procurarsi e da maneggiare), e ha fatto poche vittime quindi non è mai arrivata all’attenzione del pubblico occidentale.

 

Una organizzazione non governativa che si chiama Syrian Archive e si occupa di documentare la guerra civile in Siria ha creato il Chemical Weapons Database per raccogliere il maggior numero di prove sugli attacchi chimici in Siria. Ad aprile 2018 ne aveva documentati 212, grazie a documenti provenienti da 190 fonti che possono essere visti, analizzati e scaricati. Ci sono anche 861 video verificati. Se il fatto che gli attacchi con armi chimiche in Siria sono stati centinaia e accadevano con regolarità fosse conosciuto da tutti, i complottismi su questo o quell’altro singolo attacco che ha guadagnato rilevanza internazionale sarebbero più ardui.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)