Angela Merkel e Ursula von der Leyen (foto LaPresse)

Dimmi, ci fidiamo dell'America?

Paola Peduzzi e Micol Flammini (con la collaborazione di David Carretta)

La Commissione von der Leyen è pronta, si può cominciare. Intanto siamo stati in visita al capezzale della Nato con un coro di accompagnatori, per capire se alla fine gli alleati si ameranno

La Commissione europea di Ursula von der Leyen ieri è stata confermata dal Parlamento europeo senza problemi – il presidente dell’assemblea, David Sassoli, ci aveva detto durante la Festa dell’ottimismo del Foglio a Firenze che non era preoccupato (aveva anche aggiunto: non allarmatevi troppo se ci sono bocciature o discussioni, è la democrazia bellezza). La maggioranza della von der Leyen è più forte rispetto a quanto fosse a luglio, quando fu lei a dover essere confermata dal Parlamento europeo (e vinse di 9 voti), e le conferme degli europarlamentari sono maggiori di quelle che aveva ottenuto cinque anni fa il presidente della Commissione uscente, Jean-Claude Juncker. 461 voti a favore, 157 contrari e 89 astensioni (tra gli astenuti spiccano i Verdi, che parevano destinati a una “jumbo coalition” con popolari, socialdemocratici e liberali e invece no): questo è il risultato finale.

  

L’analisi del voto di David Carretta. A luglio, la von der Leyen era passata per soli 9 voti, ma ieri ha beneficiato del voto nominale. Popolari, socialisti e liberali sono rimasti compatti (con una manciata di eccezioni) in un’apparente dimostrazione di forza della “maggioranza Ursula”, così come l’estrema destra (la Lega) e l’estrema sinistra nella loro contrarietà. Tra gli italiani il Partito democratico, Italia Viva, Azione e Forza Italia sono stati tutti a favore. A spaccarsi sono stati i populisti di lotta antiUe e di governo. I polacchi del PiS, che governano a Varsavia, hanno schiacciato il bottone “sì”, mentre i loro alleati di Fratelli d’Italia hanno optato per il “no”. La delegazione del M5s si è spaccata in tre: i governativi a favore, Ignazio Corrao e Piernicola Pedicini contro, Eleonora Evi e Rosa D’Amato astenute. “Siamo un movimento antiestablishment che si sta comportando come la sbiadita copia del Pd”, ha detto Corrao: “Non credo che possiamo sostenere coloro a cui ci siamo sempre opposti per dna. Questi sono quelli dei vincoli, del fiscal compact, del Mes, del cappio al collo alla Grecia, dello strapotere tedesco (…). Io continuerò a oppormi costi quel che costi”. Quello di ieri è stato un “voto di fiducia per un’agenda del cambiamento”, ha detto von der Leyen in conferenza stampa: “Oggi abbiamo una maggioranza stabile e ampia”. Ma è davvero così stabile quel 61,6 per cento della plenaria di Strasburgo? Per ottenere la fiducia, la presidente della Commissione è stata costretta a fare concessioni a tutti, dando l’impressione di mancare di autorità e indipendenza. Nel suo discorso di ieri è stata ancor più vaga sui dettagli del programma rispetto a luglio, e non potrebbe essere altrimenti. Popolari, socialisti e liberali all’Europarlamento – così come gli stati membri al Consiglio – non riescono a trovare una visione comune sui principali dossier dell’agenda von der Leyen, come il “Green New Deal” e la riforma di Dublino. Oggi l’Europarlamento dovrebbe votare sulla “emergenza climatica”, ma popolari, socialisti e liberali non sono stati in grado di concordare una risoluzione comune. Lo stesso era accaduto a ottobre sui migranti, quando il Ppe si era schierato con gli euroscettici e gli eurofobi per affossare una risoluzione sui porti aperti. Von der Leyen ha annunciato il “Green New Deal” in 100 giorni e un “Migration Concept” entro il giugno 2020. Solo allora si capirà se esiste la “maggioranza Ursula”.

 

Parliamo di alleanze, parliamo di Nato. Nel discorso prima della votazione, la von der Leyen ha citato più volte Václav Havel sulla “cosa giusta da fare perché è giusta, non perché è facile”: essere europei è la cosa giusta da fare e ora bisogna iniziare a lavorare per la costruzione di questa nuova Europa. Essere europei oggi non è facile né per quel che accade qui dentro, nella nostra Unione, né per quel che accade fuori dal continente, i nostri rapporti con le altre potenze, la nostra capacità di mantenere libertà e sicurezza. Nelle ultime settimane abbiamo parlato molto dell’Alleanza atlantica, dopo che il presidente francese Emmanuel Macron è rimasto impigliato in un’unica frase detta al magazine Economist – ha parlato per un’ora – che è quella sullo stato comatoso in cui versa la Nato. Da quel momento, è stato tutto un posizionarsi, un dar contro a Macron o dargli ragione, un prendere le distanze o toglierle. Poiché la settimana prossima, il 3-4 dicembre, si tiene a Londra il vertice della Nato, abbiamo deciso di andare a vedere un po’ più da vicino lo stato di salute dell’Alleanza: per visitare questo paziente cui teniamo tanto ci siamo fatte accompagnare da alcuni esperti che ci hanno spiegato che cosa pensano della frase di Macron, delle reazioni degli altri, e soprattutto della preoccupazione che noi sentiamo più forte: ci possiamo ancora fidare dell’America? Perché poi il problema sta tutto qui: lo stesso Macron, prima di arrivare alla famigerata frase sulla Nato in coma, aveva spiegato che ai guai dell’Alleanza, che è dal 1989 che si ripensa, si è aggiunto Donald Trump, il presidente americano più eurofobo che c’è. E’ dagli interessi divergenti tra Europa e America che nascono i tormenti della Nato, da un presidente che si ritira dalla Siria e quando i miliziani dello Stato islamico scappano lui dice: pazienza, tanto non vengono da noi, vanno in Europa.

 

Il nostro primo accompagnatore è Steven Erlanger, un habitué di questa rubrica, corrispondente globale del New York Times (è stato ovunque) che ora scrive da Bruxelles. Nei giorni scorsi Erlanger ha pubblicato un articolo sulle discussioni seguite alla frase di Macron soprattutto sul versante tedesco. Si apre con la furia della cancelliera tedesca, Angela Merkel. “La cancelliera – scrive Erlanger – era furibonda, cosa inusuale per lei. Alla cena per le celebrazioni del trentesimo anniversario dalla caduta del Muro di Berlino, si è messa in disparte” con il presidente Macron, che aveva appena rilasciato la famosa intervista sulla Nato e aveva anche frenato le procedure di adesione all’Ue di Macedonia del nord e Albania, un’altra frattura profonda in Europa. “Capisco la tua voglia di politiche disruptive – ha detto la Merkel a Macron – Ma sono stanca di rimettere insieme i pezzi. Devo di continuo incollare le tazze che tu hai rotto così poi possiamo sederci insieme e usarne una per prendere un tè insieme”. Nella nostra conversazione con Erlanger partiamo proprio dai pezzi da raccogliere, dalla colla e dai tè insieme. “Macron era arrabbiato durante l’intervista all’Economist: Trump si era appena ritirato dalla Siria dove anche la Francia ha delle truppe e lo aveva fatto senza avvisare e senza coordinarsi con gli alleati. Quindi Macron era legittimamente arrabbiato. E’ lo stesso Trump che ha creato il dubbio e la domanda del presidente francese: in una crisi globale, l’America dell’imprevedibile Trump rispetterà l’articolo 5, cioè andrà in aiuto degli alleati? Io personalmente penso che sì, l’America sarà di aiuto e di sostegno. Macron è stato esagerato: la Merkel ha usato un termine preciso, ha detto che il presidente francese è stato ‘drastico’, e credo che abbia ragione. Se si pensa che il principale contribuente della Nato è anche una potenza nucleare, mi viene da dire che Macron sia stato anche irresponsabile: nessun altro membro dell’Alleanza potrebbe essere d’accordo con lui. I tedeschi in particolare sono furiosi, perché loro hanno bisogno dell’America, e sono culturalmente poco propensi a cercare l’autonomia in termini di difesa e di sicurezza”. Macron rompe, Merkel aggiusta, poi naturalmente c’è l’America, questa America che non avvisa neppure quando sta per buttare in terra una tazza. “Se Trump dovesse essere rieletto, il secondo mandato sarebbe molto più pericoloso e più rischioso del primo per l’Europa. Perché Trump vede l’Unione europea come un competitor economico, è ossessionato dalla bilancia commerciale, e chiede ai membri della Nato di spendere di più. In questo senso la reazione dell’Europa è comprensibile e io la condivido: si guarda intorno, vuole avere una politica autonoma con la Russia e con la Cina, vuole anche investire nella propria sicurezza e nella propria difesa, che sono tutte strategie utili e giuste. Quello che mi preoccupa invece è l’approccio di Macron, il quale ripete che l’Europa debba stare in piedi da sola ma in opposizione all’America o in contraddizione con l’America, non in partnership con l’America. E’ questo che fa infuriare gli altri membri della Nato, e gli europei”.

 

Con il secondo accompagnatore la visita è breve, ma utile. Simon Kuper, editorialista del Financial Times che ha sempre un occhio originale sulle cose europee, ha a cuore la domanda centrale, quella sua fiducia che possiamo riporre nell’America e la sua risposta è senza appello: “No – dice, non ci si può fidare – Trump è unico tra gli altri presidenti americani che sono venuti prima di lui nel voler sminuire il progetto europeo, ma anche quelli che verranno dopo di lui semplicemente non si occuperanno troppo di noi. E in ogni caso, la Nato non è fatta per quest’epoca moderna. E’ stata creata per resistere a un’invasione russa nell’Europa occidentale e centrale che non ci sarà. Non ci sono più guerre tra stati nel mondo, da quasi nessuna parte. Le nuove minacce sono le interferenze nelle elezioni, l’indebolimento delle nostre società, i flussi illeciti di soldi, e per queste minacce non esiste una soluzione militare”.

 

Il nostro terzo accompagnatore è Gianluca Pastori, docente dell’Università cattolica di Milano, esperto di relazioni politiche con una grande attenzione per quelle transatlantiche. Con Pastori proviamo a immaginare come saranno quei giorni a Londra durante il vertice e lui li immagina “tesi”, anche se in realtà ci si incontra per festeggiare. “L’Alleanza sta attraversando un periodo complicato, aggravato dalle posizioni della Turchia. Il disimpegno americano nella Siria settentrionale e l’avvio dell’operazione peace spring hanno messo l’Alleanza in tensione. A Londra si celebrano i settant’anni della Nato, non è certo l’evento migliore per far emergere queste divisioni” e il punto sarà vedere come i partecipanti riusciranno a non far emergere troppo le divergenze durante i festeggiamenti. Secondo Pastori però le divergenze sono iniziate da tempo: “Per 45 anni l’Europa, più che l’Unione europea, ha confidato in ciò che sembrava essere una garanzia in bianco: gli Stati Uniti sarebbero intervenuti qualsiasi cosa fosse successa. Con la fine della Guerra fredda, questa garanzia non è più automatica e non è venuta meno a causa di Trump, bensì perché l’interesse comune che teneva insieme Europa e Stati Uniti progressivamente si è consumato. Donald Trump ha aggiunto un certo modo di pensare alla questione, ma è un cambiamento di stile più che di sostanza. Gli Stati Uniti hanno sempre chiesto all’Europa di fare di più, ma queste richieste americane sono sempre state ambigue – a questo ‘fate di più’ veniva posta una serie di paletti. E l’Europa ha difficoltà a concordare cosa fare per fare di più, si dibatte oggi di Europa della difesa senza sapere cosa sia, se debba essere un pilastro della Nato, il famoso pilastro europeo, oppure se debba essere indipendente e, secondo Macron, anche antagonista”. Negli anni la missione della Nato è cambiata, “il primo segretario dell’Alleanza, Lord Ismay, diceva, scherzando ma nemmeno troppo, che la Nato serviva a tre cose: tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto. E questa è stata la mission della Nato per 45 anni. Finita la Guerra fredda è cambiata e ha avviato un processo di adattamento e trasformazione. Abbiamo avuto la Nato in Bosnia, in Kosovo, in Afghanistan, dove faceva cose che non avevano nulla a che fare con la Guerra fredda. Oggi sviluppa partnership globali come quella con il Giappone o con l’Australia, anche questo non ha nulla a che fare con la Guerra fredda. Da qualche anno è tornata l’attenzione per la Russia, ma questo riorientamento strategico è arrivato perché lo hanno chiesto gli stati membri, perché si sono creati degli equilibri che hanno deviato il corso dell’Alleanza”. Il valore della Nato però va oltre la Russia e oltre la Guerra fredda, “è l’equilibrio delle forze all’interno dell’Alleanza a produrre i riorientamenti”.

 

Il nostro quarto accompagnatore è Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes, analista attento delle cose del mondo. Secondo Caracciolo, l’Europa “si può fidare” del fatto che gli Stati Uniti vogliano rimanere nell’Alleanza atlantica, “ma bisogna capire cosa intendiamo quando parliamo di Europa. Con tutta probabilità Macron intendeva la Francia, non l’Europa. L’alternativa per la Francia è decidere di costituire una cooperazione con Germania e Regno Unito, la Francia militarmente è molto forte e questo sarebbe un modo per far capire che è lei la prima potenza. Ma non sarà mai abbastanza forte come lo è con l’aiuto degli americani. E l’America non è Trump: come accade con ogni presidente, Trump dice cose che non corrispondono alla realtà degli Stati Uniti, alla realtà dei fatti americani. Questo lo dimostra il fatto che viene spesso corretto. Certo, Trump parla molto e quindi spesso la sua voce si sovrappone a quella degli Stati Uniti, ma è anche indice del fatto che c’è una parte del paese che considera problematica la relazione tra l’Unione europea e la Nato. La Nato è sì fatta dalla sua organizzazione, che certamente le potrà permettere di sopravvivere a lungo a questo stato di morte cerebrale, come ha detto Macron, ma poi è fatta anche di molti rapporti bilaterali”.

 

Una delle ultime visite al capezzale della Nato l’abbiamo fatta assieme a un espertissimo, Erik Brattberg, che si occupa a tempo pieno di relazioni transatlantiche presso il Carnegie Endowment for International Peace di Washington. Secondo Brattberg, gli Stati Uniti rimangono “fedeli” all’alleanza transatlantica, “nonostante la leadership incerta del presidente Trump, il consenso bipartisan a Washington è assolutamente a favore della Nato. Ce ne siamo accorti quando il Senato americano, all’inizio dell’anno, ha passato un testo con 72 voti a favore dell’Alleanza e soltanto uno contrario. Secondo una rilevazione del Chicago Council, gli americani in generale hanno un sostegno solido nei confronti della Nato e, contrariamente alle opinioni personali di Trump, l’America ha aumentato la sua presenza militare in Europa durante il suo mandato. Ma certo non possiamo non notare che l’approccio americano in politica estera sta cambiando, il paese sta diventando più isolazionista e allo stesso tempo più concentrato a contenere l’ascesa della Cina. In questo nuovo contesto, l’Europa dovrà inevitabilmente assumere maggiori responsabilità sulla propria sicurezza, soprattutto verso il sud, ma questo non vuol dire che l’Europa debba decouple, separarsi dall’America”.

 

Il nostro ultimo accompagnatore è illuminante, come sempre. E’ Adam Michnik, fondatore del quotidiano polacco Gazeta Wyborcza che ha fatto parte del sindacato Solidarnosc e che ha lottato per liberare la Polonia dal comunismo. Michnik è da sempre innamorato dei valori occidentali e ci raccomanda di separare Donald Trump dagli Stati Uniti. “Il presidente americano vuole stravolgere ruoli e valori, di lui è meglio non fidarsi, anzi è opportuno continuare a fare attenzione, ma credo che non sia corretto estendere questo discorso agli Stati Uniti, altrimenti si rischia di far del male alla Nato, che è quanto di più importante abbiamo, un’alleanza che vale la pena difendere”. Le parole di Emmanuel Macron continuano a girargli in testa, “il discorso del capo dell’Eliseo mi è sembrato un po’ troppo radicale e sicuramente prematuro. Bisogna essere pazienti e per spiegarvi le virtù della pazienza faccio un esempio italiano. Mesi fa l’Unione europea ha avuto dei problemi con l’Italia, Bruxelles e Roma non si capivano più, c’era Matteo Salvini, tutto sembrava irrecuperabile, ma nessuno pensava di rompere il legame di fiducia. Bruxelles ha deciso di attendere e le cose sono rientrate. Tutto passa. Ci vorrà pazienza anche con Donald Trump, teniamoci stretti l’Alleanza e aspettiamo che sia Trump a passare, a scorrere via. Sono portato a guardare la Nato con gli occhi della Polonia e per noi la Nato non vuol dire soltanto sicurezza, ma è il simbolo della nostra appartenenza a un mondo di valori per il quale abbiamo combattuto, il mondo dei valori occidentali. Il nostro governo adesso è pro Trump e il nostro attaccamento alla Nato sembra conciliarsi poco con l’avere alla guida del paese un partito trumpiano. Anche questo governo passerà, è transitorio, ma l’appartenenza della Polonia alla Nato e all’Unione europea non è transitoria. Emmanuel Macron parla spesso di riforme. Le riforme sono spesso necessarie perché bisogna adattarsi alla storia, ai tempi, ma in questo momento è necessario concentrarsi sul fatto che ognuno, ogni paese, deve rendere più forte la propria appartenenza all’Alleanza atlantica. Le riforme non vanno proposte in modo furioso e questi sono tempi furiosi, non bisogna farsi guidare dal momento. Adesso abbiamo Donald Trump alla Casa Bianca e i nazionalisti al governo in alcuni paesi europei, fare riforme rapide, può portare a degli errori. Bisogna avere pazienza e tenere presente che la Nato durerà più dei Trump, più degli Orbán, più degli Erdogan e più dei Kaczynski”.

 

Per un pugno di “von”. In Austria la monarchia non è soltanto abolita per legge, ma per legge non si può rivendicare, o vantarsi, o esporre il fatto che si appartenga alla stirpe degli Asburgo. Il von è stato eliminato dai cognomi austriaci e da quando l’ultimo imperatore ha abbandonato Vienna, nessun Asburgo è più considerato tale. I discendenti di Carlo I sono tornati in Austria ormai da un po’ e le leggi che hanno cercato di sorvegliare affinché nessuno si mettesse in testa di essere un Asburgo come ai vecchi tempi, sono rimaste. Carlo d’Asburgo Lorena ha 58 anni e contro queste leggi ha portato avanti una battaglia lunghissima, mette il von anche se non potrebbe, il suo sito internet si chiama Karl von Habsburg, di lui si parla spesso, è stato un politico e quando vede il suo nome apparire nei giornali austriaci senza la particella non è contento. Negli anni è diventato un marchio internazionale, per cui gli capita spesso che di lui si parli su giornali inglesi o americani, che non si fanno problemi a nominarlo con il suo nome nobile, ma vorrebbe che questo avvenisse anche in Austria, è una questione di famiglia. Ha ingaggiato una battaglia contro la Corte costituzionale che non ha voluto dargli ragione per cui, con suo profondo rammarico, la stampa austriaca continuerà a parlare di lui, ex membro del Ppe e oggi imprenditore dei media con una fortissima passione per l’Europa, senza von, anche perché per chi va contro questa legge ci sono delle multe. L’articolo 2 della legge del 3 giugno del 1919 prevedeva una pena “fino a 20.000 corone o fino a sei mesi di reclusione”, i tempi sono cambiati e anche la legge, ma oggi chi contravviene deve pagare 70 euro, in caso di mancato pagamento c’è una pena detentiva di quattro ore. I giudici costituzionali hanno quindi stabilito che il nipote dell’ultimo Asburgo non ha diritto alla particella, ma Karl von Habsburg spera che la battaglia diventi politica. Nel 2017 fu un deputato ecologista a proporre che la legge, oggi centenaria, venisse rivista. I Verdi stanno attualmente negoziando per entrare nel governo con i popolari dell’Övp, chissà che non mettano la questione all’ordine del giorno, una volta risolte le divergenze sul clima e sull’immigrazione con il cancelliere Sebastian Kurz, dopo tutto, mettere il broncio per un von, dopo tanto negoziare, sarebbe eccessivo.

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