Il Regno al voto, actually
Il tormentone elettorale inglese è un film d’amore sulla porta di casa. Le tre agitazioni dei Tory, una convinzione laburista e una premonizione per i moderati
L’amore è arrivato per davvero in questo voto inglese tutto calcolo, testa, furbizia, il cuore chiuso nell’armadio. L’amore è arrivato in una forma inusuale eppur britannicissima, sulle note di “Love is all around” e con le immagini di “Love, actually”, soprattutto quelle sulla porta di casa. Il campanello che suona, c’è qualcuno che deve dirti una cosa importante: voglio prendermi cura di te. Avremmo dovuto capirlo che un po’ di romanticismo sarebbe infine piombato persino sul Regno che ha perso l’amore per se stesso quando a suonare il campanello è stato Hugh Grant, proprio lui, il primo ministro di “Love actually”, che nella notte di Natale va casa per casa a cercare Natalie. Nella vita reale, Hugh Grant ha bussato e suonato il campanello per dire: non votate i conservatori, non votate per la Brexit, suonando “il tamburo del voto tattico”.
Prima Hugh Grant, poi #ElectionActually, infine il video di Boris Johnson “Brexit Actually” e il campanello che suona
Ma noi non vedevamo davvero lui, vedevamo un primo ministro che canta le canzoni di Natale con i bambini – non sono queste elezioni natalizie? – e che dice: è tutto a posto, tutto sotto controllo, andrà tutto bene. E’ bastato un attimo e “Love actually” è diventato il tormentone elettorale, il format cui fare riferimento per ritrovarsi davanti a una porta, davanti a un elettore (che in fondo è semplicemente un uomo o una donna da conquistare) con un messaggio da consegnare. A rivendicare il primato del format è Rosena Allin-Khan, parlamentare laburista di Tooting, a Londra (era il seggio di Sadiq Kahn, che lo ha lasciato quando è diventato sindaco della capitale), che qualche settimana fa ha girato un video in cui si presenta a casa di un ragazzo e inizia a fargli vedere dei cartelloni scritti a mano, come accade in “Love Actually”. Sui cartelloni ci sono tutte le buone ragioni per votare Labour, una dichiarazione d’amore politica con l’hashtag #ElectionActually.
The choice at this election... #LoveActually #MerryXmas #Tooting pic.twitter.com/laP589NlMm
— Dr Rosena Allin-Khan (@DrRosena) November 22, 2019
Due giorni fa, è arrivata la versione di Boris Johnson, che naturalmente è: “Brexit Actually”. Il primo ministro suona alla porta, gli apre una signora, che dice al marito sul divano che sono quelli che cantano le canzoni di Natale, Boris Johnson schiaccia play sul registratore con la canzone di Natale e inizia a sfogliare i suoi cartelloni: “Con un po’ di fortuna, per il prossimo anno la Brexit sarà fatta (se il Parlamento non la blocca ancora una volta) e potremo passare oltre. Ma per ora, lasciami dire che il tuo voto non è mai stato tanto importante, l’altro ragazzo potrebbe vincere... Quindi devi fare una scelta tra una maggioranza che può lavorare o un altro Parlamento bloccato che litiga sulla Brexit, finché non finirà per assomigliare a questo (un vecchio cagnolino). La corsa è molto più serrata di quanto immagini, abbiamo bisogno soltanto di nove seggi in più per ottenere la maggioranza e il 12 dicembre il tuo voto farà tutta la differenza. Buon Natale”. Poi Johnson alza i pollici, riprende il registratore e i cartelli, si allontana e dice in camera, con una voce un po’ cavernosa: “Ne abbiamo abbastanza, ne abbiamo abbastanza, let’s get this done”, e compare la scritta “vote conservative actually”.
Il video ha creato l’effetto desiderato: non si parla d’altro. I laburisti dicono che Johnson è riuscito a rubar loro persino l’idea per una pubblicità (la Allin-Khan è furiosa), i conservatori tuittano giulivi, dopo tanto astio c’è un premier amorevole sulla porta di casa con la musica di Natale in sottofondo, pace è fatta. Il resto è stato creato dai social: immaginate quante versioni sono state trovate per i cartelli mostrati da Johnson, c’è davvero di tutto. Il romanticismo è spesso fugace, in queste elezioni inglesi poi ancor di più, visto che questo voto è nato da una somma di intransigenze e di parole non mantenute, di strappi continui, di urla parlamentari, epurazioni, defezioni, voltafaccia. Lo stesso Johnson, all’inizio, non voleva queste elezioni, voleva piuttosto piegare il Parlamento al suo volere brexitaro, ha ingaggiato una lotta politico-costituzionale che ha fatto persino mettere in discussione le fondamenta giuridiche del Regno Unito, per non parlare delle bugie che il premier ha detto o non ha detto a Sua Maestà la Regina Elisabetta II. Poi il voto è diventato un’opportunità, sostenuta da un consenso smagliante considerato il contesto, e così si è arrivati alle elezioni natalizie al freddo: le elezioni sulla Brexit senza la Brexit. Nonostante la ragione primaria per votare contro i Tory oggi sia quella di evitare il divorzio dall’Unione europea, di Brexit s’è parlato molto poco, con grande sollievo di molti. In realtà gli anti Brexit dicono che questa è una trappola messa dagli stessi conservatori e cascarci è fare il loro stesso gioco, esattamente come quando stiamo a parlare per giornate intere di nocciole turche, ma nella confusione si sono persi un po’ tutti: i Tory che sono gli unici che ripetono “facciamo questa Brexit”, i laburisti che non hanno più affrontato l’argomento non essendo mai stati molto certi su come farlo, i liberaldemocratici, gli unici genuinamente anti Brexit, che hanno perso lo slancio che avevano all’inizio, quando sembravano destinati a un vero, grande successo di rottura con il bipolarismo che domina la politica britannica (è il sistema elettorale a garantirlo). L’effetto finale è che si è parlato di altro, di molto altro, di visioni del futuro poco concrete ma accattivanti, un grande balzo dentro alle promesse elettorali che nessuno potrà mai mantenere.
Il Labour di Corbyn insiste con il radicalismo, attirando i giovani. E se perde? “Pausa di riflessione”, non si sa riflettere su cosa riflette
In questo il Labour è stato certamente il migliore, un po’ perché attira l’elettorato più giovane che per sua natura ama credere nel cambiamento radicale, e un po’ perché le sinistre occidentali stanno vivendo questa stagione verso l’estremo per vedere se è quella che le porterà a scalzare i governi di destra. I conti non tornano, ma non importa perché ci sono ritornelli che funzionano ugualmente: l’austerità ha fallito, la terza via ha fallito, il liberalismo ha fallito, e pure il capitalismo. Si riparte dai tanti e non dai pochi privilegiati, chi potrebbe non essere d’accordo? Jeremy Corbyn, leader del Labour, ha passato la vita a ripetere queste parole, ora che il palco è grande e si può soltanto vincere (perso si è già perso) ogni contestazione puramente numerico-fattuale è un tradimento, si procede compatti. Scordandosi il passato recente, anche: con tutte le lacerazioni che ha vissuto il governo conservatore, ci sarebbe stato da aspettarsi un desiderio quasi liberatorio di dare una chance al partito dell’opposizione, ma non sta andando così, o almeno questo raccontano i sondaggi. E il Labour corbyiniano sta già tentando di somministrare l’eventuale cura: comunque vada, cioè se perdiamo, è perché i Tory hanno raccontato molte bugie, non perché la nostra proposta è stata fallimentare. Appena qualcuno prova ad azzardare l’idea che se il Labour dovesse perdere, Corbyn dovrebbe dimettersi, si alzano i cori indignati dei suoi che al limite parlano di “una pausa di riflessione”. Riflettere su cosa, non si sa: ci vuole del talento a perdere per due volte di fila da un Partito conservatore ridotto ai minimi termini dalle proprie lotte interne. Eppure, potrebbe davvero andare così.
Quasi a titolo scaramantico, molti commentatori iniziano a descrivere lo scenario prospettato dalle rilevazioni: i Tory vincono bene, Boris Johnson ha la maggioranza. Che cosa succede? Succede la Brexit, succede il negoziato con Bruxelles sulle relazioni commerciali (c’è tutto il 2020 di tempo, ma potrebbe non essere sufficiente), succede una revisione ragionata delle politiche di austerità, o almeno così dice il cauto programma elettorale proposto dai Tory. E poi succede che il paese, con il resto del mondo, dovrà imparare a trattare Boris Johnson non come un accidente della tormentata storia brexitara, ma come il premier eletto per i prossimi cinque anni: sembra niente, ma è tutto.
I conservatori hanno paura delle aspettative troppo alte e del successo del voto tattico. I seggi decisi da una manciata di voti
Ora che il sogno sembra acciuffabile, il premier suona il campanello e dice: basta con questa perversione del Parlamento bloccato, abbiamo già visto che non funziona, dammi il tuo voto, la tua fiducia, ne farò buon uso, è anche Natale. I conservatori sono preoccupati in particolare per tre variabili. La prima è che il voto tattico propagandato dagli anti Brexit funzioni davvero. I margini sono molto stretti, se davvero gli elettori si mettono a votare avendo in testa soltanto di boicottare i conservatori, la maggioranza sfugge rapidamente. Anche se, come ha ricordato il direttore del magazine conservatore Spectator, l’ultima volta che il voto tattico è stato imponente era il 1997, ma allora laburisti e liberaldemocratici erano molto più coordinati di quanto non lo siano oggi (che non lo sono per niente). La seconda variabile è quella delle aspettative alte, che spesso portano alla pigrizia: se so che i Tory vinceranno e mi va bene ma non benissimo, magari non vado a votare, e così il capitale conservatore rischia di erodersi. Molti conservatori si lamentano del fatto che non si è parlato a sufficienza del pericolo che costituisce per il paese l’eventualità che Jeremy Corbyn diventi primo ministro: non c’entra la Brexit, c’entra la natura britannica, che è liberale. Per questo, a parte i campanelli e le porte e i cartelloni, molti commentatori di area Tory stanno spiegando nei dettagli il programma radicale del Labour, cercando così di mobilitare anche quei moderati non troppo a favore della Brexit che rischiano di volersi vendicare di Johnson senza calcolare l’effetto collaterale (il mondo del business su questo è molto attento e preoccupato). L’ultima variabile è strutturale: ci sono molti seggi, una trentina, che sono decisi da una manciata di voti, diciamo un migliaio. Per questo il rischio di passare da una maggioranza solida a una non maggioranza è molto alto: basta davvero poco per cambiare di segno alcuni seggi contesi.
Se nemmeno in questo voto polarizzato, un terzo partito diventa di successo, vuol dire che i fuggiaschi devono tornare a casa
A quarantotto ore dal voto è però ormai tardi anche per le preoccupazioni. Semmai, come ha scritto Robert Shrimsley sul Financial Times, bisogna iniziare a prendere appunti, e a capire le lezioni di questa tornata elettorale. La prima, dice, è per i moderati. Sono stati loro i cantori del voto tattico, che si sono messi a dare indicazioni seggio per seggio, per fermare la Brexit ma soprattutto per evitare una maggioranza dei Tory. La scommessa su un Parlamento bloccato è l’unica via rimasta per trovare un contrappeso – anche se il Parlamento indeciso sulla Brexit non è sempre stato un bello spettacolo. Se la scommessa è perduta, i moderati devono capire che l’unica strada per contrastare gli estremismi, sia a destra sia a sinistra, Brexit o non Brexit, è riformare i due principali partiti inglesi. Il sistema elettorale inglese è già di fatto strutturato per scoraggiare i partiti più piccoli: winner takes all, e di solito o è il Partito conservatore o è quello laburista. Se persino in questa elezione in cui i due principali partiti hanno fragilità che spaventano pure i loro elettori tradizionali, se persino oggi che il centro moderato sembra sguarnito non si trova una terza forza in grado di occuparlo, allora l’unico modo è ripartire da dentro i partiti. L’opzione macroniana, scrive Shrimsley, probabilmente non è fatta per il Regno Unito: i moderati dovranno trovare il modo di suonare il campanello del proprio partito, mettere una canzone pacificatrice, sfogliare i propri cartellone, ed entrare. A volte l’amore è soltanto questo: tornare a casa.