Fattore Scozia
Gran risultato di Nicola Sturgeon, che ora insiste sull’indipendenza. Johnson dirà no, ma poi?
Milano. Soltanto la Scozia e l’Irlanda del nord macchiano il trionfo dei Tory britannici nelle elezioni di giovedì. Lo macchiano cromaticamente sulle mappe che indicano con il corrispondente colore il partito vincitore in ogni collegio – soprattutto in Scozia dove alcuni collegi settentrionali poco popolati sono molto estesi e quindi visibilissimi su una carta geografica. E lo macchiano politicamente, perché presuppongono problemi a venire, soprattutto quando la Brexit comincerà a farsi realtà (presto pare, è questa la promessa elettorale dei conservatori).
In Irlanda del nord, il Democratic unionist party (Dup), che è un partito dell’Ulster non ostile ai Tory, di cui è stato un piccolo e ispido alleato di governo dopo le elezioni del 2017 vinte da Theresa May ma senza maggioranza, ha perso due dei suoi dieci seggi – tra cui (aggravante) quello del proprio vicesegretario, il brexiteer Nigel Dodds, che è stato sconfitto da un candidato del Sinn Féin, il più radicale dei partiti antibritannici. Così, per la prima volta, l’Irlanda del nord ha eletto più parlamentari repubblicani che unionisti al Parlamento di Londra.
Ma lasciando da parte l’Ulster e il suo complicato assetto, che diventa complicatissimo se guardato attraverso le lenti della Brexit, il dato elettorale più rilevante nel campo avverso ai Tory è quello scozzese. Con il 45 per cento dei voti, lo Scottish national party (Snp) di Nicola Sturgeon – che, lo ricordiamo, è una donna, il cui nome si pronuncia con l’accento ritratto sulla “i” – ha conquistato 48 dei 59 collegi scozzesi (ne aveva 35). Non è l’esito spettacolare delle elezioni politiche del 2015, in cui, sulla paradossale onda della sconfitta nel referendum di indipendenza del 2014, lo Snp aveva conquistato il 50 per cento dei voti e 56 dei 59 seggi in palio, ma è comunque un super-risultato. In primo luogo, perché il partito ha dimostrato di sapersi riprendere da una parziale flessione, ma soprattutto perché, complice il sistema elettorale, si manifesta come la sola opposizione vincente a Boris & the Brexiteers.
La sconfitta dei laburisti e dei liberal-democratici a livello nazionale in Scozia ha infatti un’evidenza plastica. Se il tentativo del leader del Labour, Jeremy Corbyn, di ammaliare l’elettorato di sinistra con proposte radicali non ha funzionato nel complesso del Regno Unito (i laburisti avevano 262 seggi e ora ne hanno 203), nella rossa Scozia per loro si può parlare di catastrofe (avevano 7 seggi e ora ne hanno uno soltanto). E i liberal-democratici che proprio in Scozia hanno qualche antico feudo periferico? Male anche loro, perché, se hanno conservato il numero totale dei loro seggi scozzesi (4) proprio lì, nel collegio del Dunbartonshire East, la leader nazionale dei lib-dem Jo Swinson ha perso il suo seggio: aveva iniziato la sua campagna in estate presentandosi come la prossima abitante di 10, Downing Street ed è stata sconfitta dalla ventisettenne Amy Callaghan, candidata dello Snp. Dimissioni e sipario.
A margine del confronto tra nazionalisti scozzesi e Labour si può annotare che lo Snp rivendica soltanto 47 dei suoi 48 seggi: infatti, pur vincente nel suo collegio, uno dei suoi candidati che, a liste elettorali già chiuse, era stato accusato di aver postato un paio di tweet con qualche ambiguità antisemita, è stato nel frattempo sospeso, con provvedimento rapido e muscolare, dal partito nonostante le sue scuse.
Forte del risultato nelle urne e del rinnovato status di unica opposizione ai Tory di Boris Johnson con un discorso politico coerente, comprensibile e vincente, lo Snp, che aveva posto la richiesta a Londra di un nuovo referendum sull’indipendenza della Scozia come highlight della propria proposta elettorale, può quindi procedere nella pretesa. La risposta del premier Johnson è prevedibile: “no”. Quindi “rispetto a una conquista dell’indipendenza da parte della Scozia, nei prossimi cinque anni è più probabile che la Scozia diventi la Catalogna: proteste, rabbia, una crescente polarizzazione mentre il governo centrale rifiuta di concedere un referendum”, come ha scritto in un tweet a caldo Simon Kuper, columnist del Financial Times? Il paragone tra le due regioni irrequiete è molto complesso e meriterebbe un’analisi approfondita. Ma una cosa è certa, ed è una considerazione che va ben al di là della Scozia e della Catalogna e investe una riflessione complessiva sulla democrazia.
Ci sono quote di voto che, quale che sia il sistema elettorale, sono sufficienti a una maggioranza parlamentare ma non sono sufficienti a una maggioranza in un referendum di indipendenza. Ecco, in questo Scozia e Catalogna sono simili: probabilmente gli elettori indipendentisti non sono (o non sarebbero) abbastanza per garantire una vittoria in un referendum di indipendenza ma non si può far finta di non vedere che quegli stessi voti sono (quasi) sempre sufficienti a dare una maggioranza parlamentare locale a partiti dichiaratamente indipendentisti. Il risultato è un paralizzante, seppur pacifico, “conflitto congelato”. E questo rende certo assai più fragile la sicurezza con cui in Scozia, nel 2014, sia nel campo del “sì” al referendum sia in quello del “no”, si riteneva che l’indipendenza fosse una questione da affrontare una sola volta per ciascuna generazione.