È il momento di ricominciare a preoccuparsi del “Rocket Man” a Pyongyang
Il “regalo di Natale” di Donald Trump sta arrivando
Roma. Manca meno di una settimana a Natale. E manca meno di una settimana al “regalo di Natale” promesso dalla Corea del nord all’Amministrazione di Donald Trump. Il fatto è che il pacchetto sotto l’albero di Trump potrebbe essere la conferma del fallimento della sua inedita strategia con la Corea del nord, un danno enorme per la politica estera americana ma soprattutto per la credibilità di Trump, che un anno fa dichiarava “risolta” la questione nordcoreana. Il 3 dicembre scorso il primo viceministro degli Esteri nordcoreano, Ri Thae Song, ha detto che “sarà l’America a scegliere quale regalo di Natale ricevere”. Fuori dalla metafora e dalla retorica nordcoreana, i funzionari di Pyongyang stanno mandando un messaggio preciso: abbiamo capito che l’obiettivo di tutti questi tavoli, colloqui, negoziati, in realtà è quello di prendere tempo per le vostre questioni interne, ma noi andiamo avanti per la nostra strada. E’ così che è nato l’ultimatum del 31 dicembre, ricordato anche da Ri: “Finora la Corea del nord ha fatto tutto in modo trasparente e sincero. Non è necessario nascondere ciò che farà d’ora in poi. Pertanto, ricordo ancora una volta agli Stati Uniti che la deadline della fine dell’anno si avvicina”. Secondo il Korea Institute for National Unification, think tank governativo di Seul, tra Natale e Capodanno i nordcoreani potrebbero lanciare un missile balistico – e sarebbe l’affronto più grande per la Casa Bianca, perché la Corea del nord possiede missili balistici intercontinentali in grado di arrivare su territorio americano e molto probabilmente anche la tecnologia per miniaturizzare le testate atomiche: vuol dire sapere come armarli.
Grazie a una efficace strategia di minimizzazione, orchestrata sia dall’America sia dalla Corea del sud – dove il governo del democratico Moon Jae-in ha speso praticamente tutto il suo potenziale politico nel riavvicinamento con il Nord – negli ultimi mesi l’attenzione internazionale sui negoziati con Pyongyang si è affievolita. Anche sostituire la parola “missili” con “proiettili” ogni volta che negli ultimi mesi la Corea del nord ha effettuato un lancio (13 dall’inizio dell’anno), non è servito a nascondere la verità: le cose stanno tornando esattamente com’erano prima della stretta di mano voluta dal presidente Donald Trump con Kim Jong Un il 12 giugno del 2018 a Singapore. All’inizio della scorsa settimana, Pyongyang ha effettuato dei test di artiglieria sul confine marittimo con il Sud, creando parecchia tensione – sarebbe una violazione dell’accordo militare firmato da Moon e Kim al primo summit intercoreano dell’aprile 2018. Neanche una settimana dopo, il Giorno del ringraziamento, Kim ha assistito al test multiplo di missili effettuato con un nuovo sistema di lancio. Venerdì scorso l’agenzia di stampa ufficiale nordcoreana, la Kcna, ha annunciato il successo di “un nuovo test decisivo” per le capacità nucleari del paese, senza specificare oltre. Il messaggio provocatorio è esattamente lo stesso del 2017, ma non è l’unico. A fine ottobre gli analisti erano si erano domandati come mai Kim Jong Un, all’improvviso, aveva detto che avrebbe voluto vedere demolito un resort turistico costruito negli anni Novanta sudcoreani sul monte Kumgang, vicino al confine, definito “squallido”. Perché demolire uno dei simboli della cooperazione tra Nord e Sud? La risposta è arrivata qualche settimana dopo: il 3 dicembre il leader nordcoreano ha celebrato la fondazione di Samjiyon, una nuova città vicino al monte Paektu, “un’utopia socialista”; cinque giorni dopo ha assistito all’inaugurazione dello Yangdok Hot Springs Tourist Area, un resort turistico dove si può sciare e andare a cavallo (ed ecco il perché delle sue foto mentre cavalca). La prima volta che Trump incontrò Kim, gli mostrò un video promozionale che avrebbe dovuto convincerlo ad aprirsi al mercato americano per far progredire il suo paese. La risposta di Kim è questa: sappiamo fare da soli. “Il ritorno del Rocket Man”, titolava ieri Slate, e che “è il momento di preoccuparsi di nuovo per la Corea del nord”.
A fine ottobre c’era molta speranza per i colloqui di Stoccolma tra America e Corea del nord. Si trattava finalmente di negoziati operativi sulla denuclearizzazione, e per la prima volta l’Europa faceva un tentativo di mediazione. Dopo neanche ventiquattro ore le due delegazioni, quella americana e quella nordcoreana, avevano lasciato la capitale svedese con due versioni dei fatti opposte: per il dipartimento di stato era stata “una discussione fruttuosa”, per il ministero degli Esteri nordcoreano “l’atteggiamento dei funzionari americani” è da condannare fino a che “non farà passi sinceri abbandonando una politica ostile”. Se Donald Trump ha detto di “seguire con molta attenzione” le evoluzioni dei colloqui, la situazione quasi “emergenziale” si intuisce sia dal fatto che qualche giorno fa l’America ha deciso di non autorizzare una discussione sui diritti umani in Corea del nord all’Onu, ma anche dall’agenda del rappresentante speciale del dipartimento di stato per la questione nordcoreana, Stephen Biegun. E’ attualmente in Giappone, dopo essere stato per tre giorni in Corea del sud, aspettando un incontro con funzionari nordcoreani di cui, però, non si hanno notizie. Oggi Biegun inizia la sua missione in Cina, l’unica potenza che davvero può avere un peso nei negoziati. E non è un caso se, un paio di giorni fa, Russia e Cina abbiano proposto al Consiglio di sicurezza dell’Onu una bozza di risoluzione per alleggerire le sanzioni economiche contro la Corea del nord – bozza a cui l’America si è opposta. La prossima settimana a Chengdu, nel Sichuan, si vedranno i leader di Cina, Giappone e Corea del sud, ed è forse la vera novità delle alleanze asiatiche per la sicurezza: più l’America confonde, divide, si ritira, o chiede più soldi per la protezione degli alleati strategici, e più la Cina di Xi Jinping sa come guadagnare autorevolezza e potere. Non solo con la Corea del nord.