L'America illude gli armeni sul riconoscimento del genocidio, ancora
L’Amministrazione Trump ha bloccato il processo. “Il nostro popolo ha sviluppato la qualità della sopravvivenza, la qualità di chi ha visto in faccia il pericolo”. Intervista al presidente Sarkissian
Nella politica occidentale, il genocidio degli armeni riemerge a tratti come un fiume carsico. Negli Stati Uniti, per esempio, se ne è parlato molto quando, a fine ottobre, il Congresso americano ha approvato a larghissima maggioranza una mozione che infine ha riconosciuto il primo genocidio del Ventesimo secolo. Il governo armeno esultò con giubilo, l’enorme comunità degli armeni all’estero si sentì finalmente ripagata dei suoi sforzi, ma la mozione non è vincolante, e il suo contributo è soprattutto simbolico. La settimana scorsa anche il Senato ha votato all’unanimità il riconoscimento del genocidio armeno, con testo bipartisan. Venerdì il governo turco – che nega il genocidio perpetrato dagli ottomani nel 1915 e sostiene che le vittime furono il normale risultato degli scontri della Prima guerra mondiale – ha convocato l’ambasciatore degli Stati Uniti e ha minacciato di chiudere la base militare di Incirlik, dove sono ospitate testate nucleari americane.
Così due giorni fa l’Amministrazione Trump ha bloccato il processo di riconoscimento, una portavoce del dipartimento di stato ha detto che Trump non ci pensa nemmeno a infastidire la Turchia in un momento così delicato, in cui bisogna tenersi buono Erdogan in Siria, in Libia e nella Nato. L’America mantiene la posizione che ha sempre avuto, il genocidio armeno è stato un terribile “massacro di massa”, ma non un genocidio. Non è soltanto colpa di Trump. Anche Barack Obama in campagna elettorale promise che avrebbe riconosciuto il genocidio armeno, ma poi si ritirò sul più bello.
Gli armeni ci sono rimasti male, ma sono abituati. Al contrario che in occidente, in Armenia la memoria del genocidio è viva e intrecciata nel tessuto della società. Passeggiando da straniero per le strade della capitale Yerevan è impossibile non sentirne parlare tutti i giorni, ed è impossibile perdere di vista il monte Ararat, che è il fulcro dell’antica Armenia ma che oggi è la più alta vetta della Turchia. In tutta l’Armenia, si dice, ancora oggi non c’è nessun cittadino che non abbia avuto almeno un genitore, un nonno o un parente ucciso nel genocidio o costretto a emigrare lontano – in Libano, in Russia, negli Stati Uniti – per sfuggirvi. Ma gli armeni, dicevamo, sono abituati a essere delusi dalla comunità internazionale, e hanno sviluppato quella che Armen Sarkissian, il presidente della Repubblica armena, definisce “la qualità della sopravvivenza”. Il Foglio ha parlato con Sarkissian qualche settimana fa, in un’intervista tenuta nel palazzo presidenziale di Yerevan. La questione del riconoscimento internazionale non era ancora esplosa, ma è impossibile, in Armenia, non parlare del genocidio. “Poco più di 100 anni fa gli armeni sono stati vittime di un genocidio ordito con lo scopo di distruggere un’intera nazione, distruggere un popolo di milioni di persone. Ma l’Armenia è sopravvissuta, e gli armeni hanno sviluppato la qualità della sopravvivenza, la qualità di chi ha visto in faccia il pericolo”, ha detto Sarkissian. Prima di diventare presidente della Repubblica e, prima ancora, politico e diplomatico di lungo corso, Sarkissian è stato professore di Fisica e Scienze informatiche a Cambridge. Parla lentamente e in maniera deliberata, da scienziato, e per spiegare in che modo il genocidio è uno degli elementi fondanti del carattere armeno usa la metafora fisica del campo di forze.
“La storia e la memoria sono un grande campo, magnetico, elettromagnetico, gravitazionale, che tiene uniti tutti gli armeni. Abbiamo una storia millenaria, e abbiamo affrontato un disastro immane. Combattere per la propria sopravvivenza crea forza, e soprattutto crea un’identità. La nostra storia, la storia del genocidio, ci tiene uniti e ci consente di sopravvivere. Nei millenni abbiamo sviluppato i geni per non farci sopraffare da imperi enormi, quello assiro, romano, bizantino, persiano, ottomano, sovietico. E’ parte di noi”, dice Sarkissian. “E la nostra qualità della sopravvivenza è particolarmente utile nel Ventunesimo secolo”.
Per descrivere i grandi rivolgimenti globali degli ultimi anni, il presidente armeno parla di “mondo quantico” – un’altra metafora fisica –, un mondo in cui “le relazioni economiche, diplomatiche, internazionali sono drammaticamente differenti da com’erano soltanto venti o trent’anni fa. E’ un mondo quantico, perché come fisico vedo che la politica classica e le relazioni classiche ormai sono superate”, dice Sarkissian. Per questo non c’è da stupirsi delle giravolte trumpiane, delle follie della Brexit, delle scorribande russe. Gli schemi sono saltati, e gli stati piccoli come l’Armenia devono adattarsi o soccombere. Gli armeni l’hanno capito. Tradizionalmente lo stato ex sovietico fa parte della sfera d’influenza russa ed è membro dell’Unione economica eurasiatica, il blocco economico-politico dominato da Mosca. Ma ha da poco siglato un trattato commerciale molto importante con l’Unione europea, e la gran parte degli armeni si sente cittadina europea (anche Sarkissian, che a un certo punto dice: “Qui siamo in Europa”). I legami con gli Stati Uniti sono storici, anche grazie all’ampia diaspora, e da qualche tempo l’Armenia si è avvicinata alla Cina e cerca di entrare a far parte della nuova Via della Seta. Qualità della sopravvivenza, appunto, forse la stessa che ha consentito alla Rivoluzione di velluto di avere successo: nell’aprile del 2018 gli armeni sono scesi in piazza contro un governo corrotto e autoritario, e l’hanno rovesciato senza spargere una goccia di sangue. Nel dicembre del 2018, esattamente un anno fa, hanno eletto democraticamente un nuovo primo ministro. E’ l’unica rivoluzione democratica che ha funzionato senza intoppi negli ultimi anni, e Sarkissian, da presidente della Repubblica, ha sorvegliato tutto il processo.
Quest’anno, in primavera, anche la Camera dei deputati italiana ha approvato una mozione che esorta il governo a “riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza internazionale”. Anche in questo caso la Turchia ha convocato l’ambasciatore. Anche in questo caso il governo ha sorvolato sulla questione. Ma gli armeni sono abituati, loro hanno trovato altrove la loro unità.
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