Studiare il successo di Vladimir Putin
Religione, Europa, società, libertà. Indagine sui vent’anni di potere
Le origini del potere di Putin sono insondabili. Nessuno può essere certo del perché e del come è effettivamente arrivato al dominio sulla Federazione russa, a parte talento politico e personalità individuale, cose che contano. Tutti conosciamo il curriculum: infanzia povera, studi sudati in Diritto internazionale, entrata nel Kgb, destinazione a Dresda fino alla caduta del Muro, ritorno breve agli studi, staff del sindaco di San Pietroburgo, vicesindaco di un team elettorale poi sconfitto, arrivo a Mosca direttamente al Cremlino regnante Boris Eltsin in fine di parabola, poi in un battibaleno capo del Fsb (capo di tutte le spie), primo ministro, erede designato di Eltsin, presidente pro tempore a dicembre di vent’anni fa, presidente eletto nel marzo dell’anno successivo, il 2000, e da allora dominus contrastato ma tenace e sempre in controllo di tutte le Russie per vent’anni, e non è finita qui. Sappiamo tutto, ma il momento in cui la scelta cade su di lui e il perché è, come si diceva per Giulio Andreotti, un mistero avvolto in un enigma.
Più chiaro il sistema di governo da lui messo in piedi, e forse anche più interessante è la solare evidenza della sua riuscita politica, per quanto gravi qualche ombra sinistra sul futuro (ma il futuro è indecidibile). Eltsin aveva distrutto il partito comunista e squinternato l’eredità statale e nazionale sovietica, generando libertà con il suo risvolto dell’anarchia, sopra tutto in campo economico, e rendendo possibile con il presidenzialismo più o meno demagogico la gestione personale e oligarchica del potere centrale, in un regime di anche troppo larghe autonomie civili che un paese dalla storia integralmente illiberale poteva sopportare fino a un certo punto. Putin ha creato un ferreo partito del presidente, ha ricentralizzato il potere decisionale abolendo ogni autonomia e sconfiggendo il ceto degli oligarchi con un altro ceto di oligarchi fedeli al nuovo centro, ha ridotto le libertà impazzite della Russia di Eltsin barattandole con un senso di sicurezza e patriottismo e influenza egemonica giocato sulla scena interna e internazionale.
E per vent’anni, con una chiara visione delle cose, ha progressivamente assimilato a sé stesso, mettendo anche in scena il suo show, il suo grandefratello, le leve del comando: la gente ha cominciato a stare meglio, in particolare si è sentita parte di una classe media in ascesa, capace di consumi accettabili e di relativi ma sicuri spazi di vita privata; gli apparati sono stati tutti messi in riga con astuzia e forza; l’homo sovieticus durato per decenni è stato ideologicamente riabilitato e ha trovato nella proiezione mondiale del paese, nel vecchio inno con nuove parole, il simbolo del suo riscatto dopo la “più grande catastrofe geopolitica del secolo” (la caduta del Muro di Berlino secondo Putin); l’informazione e la cultura si sono allineate per amore o per disciplina coatta salvo minoritarie eccezioni nel ceto urbano più avanzato; una catena di avvertimenti fatta di omicidi in patria e all’estero ha steso sul regime una cappa di intimidazione forte, le opposizioni sono state ridotte nella possibilità di espressione con un misto di galera e restrizioni amministrative occhiute, il discorso pubblico nazionale è diventato una serie di variazioni su un tema unico che è l’interesse alla stabilità e alla sicurezza della patria di fronte alle sfide politiche di nuovi nemici e interlocutori, fino alla rimessa in discussione vittoriosa dell’equilibrio postsovietico nato dalla sconfitta nella Guerra fredda.
Secondo Sergio Romano Putin è un uomo estremamente religioso. Effettivamente l’alleanza ripristinata con gli ortodossi e il Patriarcato di Mosca è stata uno strumento di regno efficace, associata alla civetteria dell’ideologia “eurasiatica” dell’improbabile Dugin che mi è sempre apparsa, anche se posso sbagliarmi, uno specchietto per le allodole, insieme con la battaglia contro gli effetti nocivi e antinazionali della secolarizzazione liberale all’occidentale. Putin ha puntato le sue vere carte in Europa, verso l’Europa occidentale, e passando per la Crimea, l’Ucraina e il medio oriente fino alla Libia, veri pegni di un espansionismo trionfale, senza dimenticare il fronte della globalizzazione cibernetica e la riattivazione dei miti e delle leggende fondativi usciti dalla Seconda guerra mondiale e dallo stalinismo vittorioso sul fronte orientale, ha raggiunto un buon livello di influenza e di beffarda sfida politica, tutta politica, verso gli Stati Uniti, circoscritti dal trumpismo a un ruolo sempre più pomposo e sempre minore di esercizio nominale e marginale del potere imperiale ereditato da una lunga storia e farsescamente dissipato. Quanto all’economia, credo che il potere putiniano sia relativamente nei pasticci, ma è un altro paio di maniche, e che maniche. Come sempre, a una visione molto ambiziosa e alta ma di sbocco difficile, com’è quella di Putin, si oppone quale efficace contraltare la prassi dei più accreditati competitori, in questo caso la Cina e l’India. Nel mondo in cui la libertà è stata compressa seriamente, a favore di una democrazia che si vuole e si dice illiberale, o democratura, Putin comunque giganteggia. Vent’anni dopo non lo si può disconoscere.