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Rileggere Arendt e Grossman per capire meglio la Cina di oggi

Giovanni Maddalena

Appunti sulla riforma dello statuto dell’Università Fudan di Shanghai, che limita la libertà di espressione. La storia insegna

Non c’è termine alla scoperta della natura e del potere della libertà. Questa settimana, fine dell’anno 2019, nella prestigiosa Fudan University di Shanghai, in Cina, cambia lo statuto. Si inseriscono due “piccoli” cambiamenti: l’abolizione dell’articolo sulla libertà di parola e l’inserimento del “rafforzamento” del pensiero di docenti e studenti secondo il socialismo di Xi Jinping, modifiche “approvate” e rese note dal ministero dell’Istruzione di Pechino all’inizio di dicembre. Xi Jinping, il leader cinese che è spesso riuscito ad accreditarsi come il campione del libero (sic!) mercato – soprattutto in funzione anti Donald Trump, un presidente che, per quanto discutibile, resta una figura istituzionale dai poteri limitati, che si può porre in stato di accusa e che si sottopone a un libero voto dei cittadini.

 

L’interessante vicenda dimostra alcune caratteristiche del potere totalitario messe ben in luce dagli studi di Hannah Arendt e Vasilij Grossman, ottimi autori da rileggere durante le festività e, come si vede, non ancora relegati nel passato. Innanzi tutto, il potere totalitario ha comunque bisogno di statuti e leggi, tanto è forte la sete di giustizia degli esseri umani. Non si può fare un’ingiustizia senza cercare di darle una veste presentabile, giustificabile, legale. Anche per perseguire gli ebrei o i kulaki i sistemi totalitari novecenteschi si erano muniti di leggi che potevano essere oggetto di un giudizio in tribunale. In secondo luogo, nell’operazione università si vede il solito principio dell’identificazione del bene con il pensiero del capo, inevitabile china di qualsiasi ideologia. Le ideologie, infatti, sono pensieri coordinati che stravolgono la coscienza della realtà: visto che non è la realtà a guidare ma un pensiero, chi può sapere qual è il pensiero giusto? Il capo è l’incarnazione del pensiero ed è quindi giusto per definizione, a prescindere da chi sia il capo e a dispetto di ogni dato di realtà.

 

Ma oltre alle caratteristiche del totalitarismo, la vicenda fa emergere anche il silenzioso ma inarrestabile potere della libertà. Non sfugge infatti che i cambiamenti nello statuto delle università cinesi nascono per cercare di arginare la fiamma che si è accesa a Hong Kong, dove sono soprattutto giovani e universitari a guidare la protesta contro un percorso di limitazione dell’autonomia che porterebbe l’amministrazione dell’ex colonia inglese più vicina al pensiero unico cinese. Perché un potere immenso come quello cinese dovrebbe avere paura di pochi (in proporzione) studenti anche geograficamente piuttosto isolati dal potere centrale di Pechino? Perché dicono la verità e si battono per essa. Come insegnano tanti pensatori antichi, ma anche la modernissima serie televisiva su Chernobyl, il contrario della libertà non è la schiavitù ma la menzogna. I sistemi totalitari sono costruiti sulla menzogna costante, difesa dall’assoluta non trasparenza, dalla mancanza di meccanismi di controllo del potere, dalla violenza della polizia segreta, dalla propaganda che ripete sempre i medesimi slogan. Per questo, una debole voce di verità può accendere un grande fuoco, come sta accadendo a Hong Kong. Per questo il potere cinese teme questa voce e cerca di correre ai ripari. Solo che nel caso della libertà umana, una volta che la fiamma è accesa, essa arderà più forte sotto il vento impetuoso, come cantava Peter Gabriel in una celebre canzone degli anni Settanta sul Sudafrica (“You can blow out a candle / but you can’t blow out a fire /Once the flames begin to catch / the wind will blow it higher”). Quel regime di apartheid infatti crollò qualche anno dopo, fine che forse i segnali deboli delle università cinesi preannunciano anche per il grande impero comunista orientale.

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