Roma. Nelle prime ore di venerdì l’Amministrazione Trump ha ristabilito l’ordine naturale dei rapporti di forza in medio oriente e ha ucciso con due missili sparati da un drone il generale iraniano Qassem Suleimani sulla strada appena fuori dall’aeroporto internazionale di Baghdad. Verranno a protestare e a dire che l’America ha dato uno scossone improvviso e brutale e imprevedibile alla situazione nella regione, ma per gli osservatori gli schemi soliti erano già saltati in aria da tempo e non c’era più un ordine da preservare. E non per nulla il Grande Ayatollah Khamenei chiamava il suo generale “il martire vivente”. A maggio Qassem Suleimani aveva autorizzato un attacco missilistico senza precedenti dall’Iraq contro le raffinerie dell’Arabia Saudita. Ad agosto di nuovo il generale Suleimani aveva ordinato un attacco con alcuni droni contro il territorio di Israele. Tra maggio e dicembre ci sono stati diciotto attacchi con razzi e mortai contro le basi americane in Iraq, tutti compiuti senza molto scandalo dalle milizie create e comandate da Suleimani – venerdì 27 uno di questi attacchi ha ucciso un americano e in altri casi sono stati uccisi soldati iracheni, ma il governo di Baghdad non ha mai protestato. L’obiettivo finale di questa campagna era sradicare le forze della Coalizione dall’Iraq. Otto giorni fa il generale iraniano – che nella capitale dell’Iraq poteva dare ordini come fosse un viceré – ha fatto nominare con discrezione un ufficiale iracheno a lui fedele come comandante della sicurezza della Zona verde, l’area sorvegliatissima della capitale che contiene tra le altre cose anche l’ambasciata americana. Il risultato si è visto il 31 dicembre, quando centinaia di miliziani sono arrivati come se nulla fosse nel cuore dell’area in teoria meno accessibile del paese, hanno assediato l’ambasciata americana con lanci di bottiglie molotov e hanno scritto sul muro di cinta: “Il mio leader è Qassem Suleimani”. E’ stato uno show di forza senza precedenti in Iraq. Non è dato sapere come Suleimani avrebbe gestito il controllo ottenuto sulla Zona di Baghdad che contiene i palazzi delle istituzioni e del potere, ma c’è la possibilità che si preparasse in anticipo a resistere con le cattive maniere a qualsiasi cambiamento chiesto dai giovani di piazza Tahrir accampati sull’altra riva del fiume Tigri dirimpetto alla Zona verde. Questo per ricordare che la morte di Suleimani è un fatto storico ma è anche un singolo episodio in una catena di episodi molto brutali: alcuni ottengono molta attenzione e spazio televisivo e altri no. Suleimani è il generale le cui milizie durante gli anni della guerra – tra il 2006 e il 2010 – uccisero centinaia di soldati americani con un nuovo tipo di trappola esplosiva a forma conica che perforava i blindati americani con un getto velocissimo di metallo fuso (EFP era la sigla degli ordigni, per chi vuole sapere di più). Le milizie di Suleimani in Iraq allora si vantavano di uccidere molti più americani dello Stato islamico, quindi dei fanatici di marca sunnita. Eppure venerdì notte il generale iraniano responsabile di quella guerriglia è atterrato all’aeroporto internazionale di Baghdad e a parte una piccola precauzione – il suo convoglio di veicoli è stato preceduto da altri due convogli-esca di veicoli vuoti – si preparava ancora una volta a passare in auto sotto il muro di cinta di una delle più grandi basi militari americane della regione, che è accanto alle piste dell’aeroporto, protetto soltanto dal manto illusorio della propria invincibilità. Suleimani però non era un ambasciatore svizzero, era un provocatore militare che negli ultimi dieci giorni ha sbagliato i calcoli e ha pagato il suo errore.
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