Milano. Parlare di Europa agli inglesi è ormai difficile, c’è chi è esausto, chi ride, chi piange, chi si è fatto una ragione del divorzio e chi no, ma se dici “Erasmus”, gli occhi brillano sempre. C’entra forse più la gioventù che l’Europa, ma il programma di studio all’estero è da sempre una delle armi più potenti del soft power europeo, al punto che sono stati introdotti nello scambio “plus” – che è cofinanziato dall’Ue – anche paesi che non fanno parte dell’Ue. L’Erasmus è una delle esperienze d’Europa più concrete (per quanto ancora esclusiva) che ci siano, ed è per questo che la votazione della maggioranza del Parlamento inglese (336 conservatori più otto del Dup nordirlandese) che non ha dato garanzia di sopravvivenza al programma dopo la Brexit è stata accolta male – “una decisione spaventosa”, dice al Foglio il politico laburista Andrew Adonis. Il governo di Boris Johnson è stato rassicurante: un portavoce del ministero dell’Istruzione ha detto che Londra “si impegna a continuare le relazioni accademiche tra il Regno Unito e l’Ue”, ma ha aggiunto un “se è nel nostro interesse” che è suonato al solito sinistro. Anche perché il ministro dell’Istruzione, Gavin Williamson, e il sottosegretario per la Scuola, Nick Gibb, sono tra i conservatori che hanno bocciato l’emendamento dei liberaldemocratici di vincolare il governo a restare nell’Erasmus+ nonostante la Brexit.
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