Roma. Ieri pomeriggio quasi sotto le finestre del Foglio a Roma c’era un presidio contro la guerra. Un accrocchio di una trentina di persone venute in piazza Barberini perché venerdì scorso a Baghdad il generale iraniano Qassem Suleimani è stato ucciso da un drone americano e la cosa ha riempito i notiziari televisivi e ha fatto scattare il livello di guardia dell’opinione pubblica – che non scatta in altri casi. “L’attacco criminale dell’imperialismo Usa in Iraq”, diceva l’annuncio della manifestazione “contro la guerra” anche se la guerra di fatto non c’è. Veniva in mente quello che è successo nella primavera del 2017 e nella primavera 2018, quando l’Amministrazione Trump bombardò per meno di un’ora la Siria e molti credevano che stesse per invaderla. La crisi di questa settimana è rientrata perché l’America e l’Iran sono tornati sulle loro posizioni guardinghe che avevano prima. Anche questa volta nessuno pensava di scatenare una guerra di terra e un’invasione come in Iraq nel 2003 e anche questa volta la maggioranza dei commenti parlava soltanto di quello, come se fosse una possibilità imminente. E’ stato invece uno scontro basato sulla deterrenza – l’Iran doveva rispondere per salvare la faccia ma non poteva esagerare altrimenti l’America avrebbe risposto con la sua capacità superiore di infliggere danni. Si è chiuso tutto così in fretta che il presidio contro la guerra è arrivato in piazza con due giorni di ritardo.
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