Bernie Sanders sarebbe il vecchietto del West se il suo socialismo non avesse largamente attinto alle sue simpatie per l’Unione Sovietica, che è a Est, ha un’età venerabile ma sconsigliabile per la Casa Bianca, ha appena subito in campagna elettorale un infarto o giù di lì che lo ha bloccato, il suo programma statalista è considerato bizzarramente unamerican anche da alcuni suoi sostenitori, la sua retorica ha un che di bolso e di disperato, un che di naturalmente perdente, per il resto certo ha avuto fascino quando si scatenò la mobilitazione contro la Clinton, individuata non come una prosecuzione della strategia realista e progressista del marito ex presidente ma come una “nasty woman” (definizione spietata e rozza del suo avversario di quattro anni fa) al centro di una rete di establishment che parlava di soldi, corporate funding, controllo d’apparato, riformismo moderato, guida magari sicura ma tremendamente impopolare perché istituzionale e professionale. Che fosse una donna, e per la prima volta alle soglie della presidenza, non importò gran che, sebbene il voto popolare l’abbia premiata con tre milioni di voti più del macho Trump. Nessuno rimproverò a Sanders, dopo che aveva parecchio contribuito alla vittoria di modesta misura di un turbo capitalista farlocco nei collegi elettorali operai e della classe medio-bassa, di aver fatto, come si diceva una volta, il gioco del nemico. Anzi un tale candidato sognatore, tutto tasse e spesa pubblica, ha ripreso fiato, si è ripresentato come nulla fosse e adesso è perfino in testa nei sondaggi sulle primarie anticipate dell’Iowa.
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