Globetrotter libici
Il generale Haftar è riottoso persino con Putin. Storia della regia russo-turca, e delle notifiche a Europa e Italia
Milano. Il generale libico Khalifa Haftar non ha voluto firmare ieri il documento di cessate il fuoco permanente in Libia proposto dalla Russia assieme alla Turchia. Il capo del governo di accordo nazionale libico, Fayez al Serraj, invece lo ha sottoscritto. Haftar ha detto di voler studiare attentamente il testo, di aver bisogno di dormirci su, rimandando l’eventuale firma a questa mattina: il generale non vuole ritirare le sue truppe dietro alla “linea del cessate il fuoco” che la Russia vuole delineare, e non accetta la richiesta presente nella proposta di un disarmo delle milizie. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha fatto da mediatore assieme al collega turco, Mevlüt Cavusoglu, nei vari incontri libici (molto fotografati) ma alla fine della giornata ha detto che ci sono stati “passi avanti” senza un accordo condiviso. Ancora una volta Serraj non ha voluto incontrare personalmente Haftar – il loro ultimo faccia a faccia risale al febbraio del 2019: due mesi dopo il generale ha lanciato l’offensiva contro Tripoli – come è accaduto anche la settimana scorsa a Roma, ma ha fatto lavorare i suoi diplomatici e ha presentato un documento per la discussione, assecondando le richieste della Russia. Haftar che era arrivato a Mosca già domenica e che aveva iniziato i colloqui prima di tutti forte del sostegno sul campo di cui gode proprio da parte dei russi è riuscito a prendere tempo persino con Putin, dopo aver accettato il cessate il fuoco quasi allo scadere del termine concesso dalla Russia.
Putin ha conquistato la regia del dialogo intralibico cui ambivano l’Italia e l’Europa, che non hanno saputo esercitarla con la dovuta determinazione. I giornali internazionali titolano sul “golpe diplomatico” di Putin che, in asse con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, ha messo in secondo piano gli sforzi dei tanti e improvvisati globetrotter europei, entrati in un attivismo diplomatico dell’ultimo minuto che servirà, nella migliore delle ipotesi, a ratificare quel che è stato deciso e organizzato da Mosca. Il premier italiano, Giuseppe Conte, che aveva tentato di far incontrare Haftar e Serraj a Roma ma era finito a parlare soltanto con il primo – che si dimostra ogni volta il più riottoso al compromesso e al negoziato – ieri è andato in visita da Erdogan per ribadire “il lavoro comune” per un “obiettivo comune”: il cessate il fuoco permanente. Sarà questo l’ordine del giorno della conferenza di Berlino di cui si parla da molte settimane (caricandola di ogni genere di aspettative salvifiche) e che si terrà – così ha detto il portavoce del governo di Angela Merkel – il 19 gennaio, con gli attori libici, la Russia, la Turchia, l’Italia e l’ospite tedesco. Bisogna arrivarci però, a domenica, e la tregua sul terreno, già parzialmente violata, deve tenere almeno fino ad allora.
Vladimir Putin è convinto di potercela fare. Come è suo costume, ha detto che le truppe di sostegno a Haftar arrivate a sud di Tripoli a settembre – sono gli uomini del Wagner Group di proprietà del “cuoco di Putin”, Yevgeny Prigozhin – “non rappresentano lo stato russo”: come gli “omini verdi” nell’est dell’Ucraina, il presidente russo gestisce la sua presenza in conflitti stranieri in modo utile all’obiettivo del momento – oggi vuole fare il mediatore tra le parti – ma sempre con il controllo del territorio.
Allo stesso modo Putin approfitta dell’assenza di strategia degli altri attori per diventare decisivo. L’attivismo delle ultime settimane sia da parte dell’Italia sia del nuovo vertice europeo non deve ingannare: l’offensiva del generale Haftar è iniziata il 4 aprile dello scorso anno e nonostante i morti, l’abbattimento di droni (quello italiano dovrebbe interessarci da vicino), la strage dei cadetti di qualche giorno fa, non è stata presa alcuna iniziativa. Quando Putin si è accorto dello spazio vuoto ci si è subito infilato, esattamente come è accaduto in Siria: allora Barack Obama aveva detto che il regime di Bashar el Assad avrebbe dovuto consegnare tutte le sue armi di distruzione di massa, Putin si candidò a fare da collettore e garante con una dichiarazione che pareva una provocazione e che fu presa sul serio da Washington. E’ così che la Russia è entrata nel conflitto siriano, per restarci. Nel caso libico non c’è nemmeno stato bisogno di un invito, perché il varco era già in bella mostra dopo mesi di buoni propositi e nessuna azione. Putin ha anche governato la triangolazione con la Turchia, esattamente come avviene in Siria dove non c’è operazione turca che non venga almeno coordinata con le forze russe – non serve un’alleanza stretta in questo caso, serve un movimento in sincrono. in cui non ci si pesta i piedi. L’accordo energetico siglato da Putin ed Erdogan proprio mentre hanno iniziato a occuparsi insieme di Libia fa da garanzia a questa collaborazione fattiva.
L’Italia si è ritrovata a dover prendere atto di quel che è avvenuto, cercando di rimanere rilevante almeno con la propria presenza ai tavoli dei negoziati. Per l’Europa il bilancio è forse ancora più misero, soprattutto se si pensa a quanto è rimasta esposta nei confronti della Turchia, che non soltanto si occupa dell’immigrazione dal versante siriano ma ora con la sua presenza in Libia potrebbe diventare ancora più strategica per il controllo dei flussi dal nord Africa. Il giro convulso per le capitali mediterranee messo in piedi da Bruxelles e da Roma non toglierà la regia alla Russia e alla Turchia in Libia. Semmai oggi l’urgenza per Putin è governare Haftar che non vuole rinunciare alla sua offensiva su Tripoli né scendere a compromessi con Serraj. Che cosa dovrà concedere il presidente russo per ottenere la firma di Haftar all’accordo e il successo (parziale certo, ma ogni giorno è importante) del proprio golpe diplomatico? E’ quello che si stanno chiedendo tutti: la risposta definirà la promessa di stabilità della Libia, e stabilirà il costo dell’inazione italiana.