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I due Iran

Il regime iraniano non si è ricompattato, anzi è sempre più compromesso

Daniele Raineri

“Il nemico è qui”. Le proteste contro gli ayatollah sono più frequenti. “E se per sbaglio schiacciate il pulsante dell’atomica?”. Una storia diversa su Suleimani

Roma. Il regime iraniano è nel mezzo di una crisi di credibilità senza precedenti a meno di una settimana dai funerali solenni del generale Suleimani, che secondo molti commentatori avrebbero dovuto ricompattare l’opinione pubblica dalla parte degli ayatollah. Dall’annunciatrice tv Gelare Jabbari che si dimette e chiede scusa “perché vi ho mentito per tredici anni” fino agli studenti universitari che cantano contro i Guardiani della rivoluzione islamica perché “sono stupidi e sono la nostra vergogna”, dalla campionessa olimpica di taekwondo Kimiya Alizade che sabato ha chiesto asilo politico nei Paesi bassi per “l’ipocrisia, le menzogne e l’ingiustizia” del regime fino alle decine di manifestazioni spontanee in tutto il paese, i segni dello sfacelo progressivo sono dappertutto. Lo scontro con l’Amministrazione Trump non si lascia dietro nessun sentimento di unità nazionale, anzi. Quello sceso in piazza qualche giorno fa per Suleimani era l’Iran che può celebrare alla luce del sole la linea ufficiale del governo con la benedizione dell’apparato di repressione. Dopo l’abbattimento per errore di un aereo passeggeri all’alba di mercoledì è di nuovo venuto fuori l’altro Iran, quello che si deve tenere nascosto per paura delle fucilate e degli arresti, ma appena può strappa e distrugge i ritratti del generale Suleimani e lo chiama “assassino” – una cosa che in occidente è considerata di cattivo gusto. Il problema per il regime è che l’altro Iran viene fuori a protestare a intervalli sempre più brevi e che l’intensità delle proteste cresce. Se nel 2009 i ragazzi della Teheran bene chiedevano “dov’è il mio voto”, le ondate di protesta successive hanno coinvolto sempre di più il resto della popolazione e gli slogan sono diventati sempre più duri. “Non vogliamo il regime dei Guardiani”. “Dicono che il nostro nemico è l’America, ma il nostro nemico è qui”. “Non vogliamo la repubblica islamica”. Le ultime proteste erano state a novembre e per bloccarle il regime aveva bloccato l’accesso a internet per quasi una settimana e aveva ucciso millecinquecento persone (fonte Reuters). Adesso ci sono di nuovo proteste. L’Iran che sta con il regime è immenso e ben radicato, ma l’instabilità accelera.

  

E’ possibile che sia anche per questo – e non per un’improvvisa conversione alla trasparenza – che il regime ha ammesso dopo tre giorni di avere abbattuto un aereo che trasportava 83 passeggeri iraniani. Nel calcolo dei danni possibili, la rabbia popolare sarebbe stata ancora maggiore se la verità sull’abbattimento fosse arrivata grazie a qualche indagine dall’esterno. “E se per sbaglio schiacciate il bottone dell’atomica?”, dice ora uno slogan irridente che prende di mira il programma nucleare, vanto del regime. 

  

In questo contesto il presidente americano Donald Trump scrive che gli iraniani sono meravigliosi perché si rifiutano di calpestare la bandiera americana – è una scena che si vede in un video filmato in un’università, gira molto – e rivendica l’uccisione del generale Suleimani come un fatto positivo che avrebbe dovuto essere fatta “venti anni fa”. Sulla questione iraniana Trump dilaga e si prende la scena, una cosa che i suoi sfidanti democratici sono incapaci di fare. Il New York Times domenica ha pubblicato una ricostruzione della crisi interessante, dalla quale si capisce che l’uccisione di Suleimani non è stata una decisione improvvisa del presidente ma un piano che andava avanti da almeno diciotto mesi. L’Amministrazione aveva chiesto all’intelligence di reclutare informatori negli ambienti frequentati dal generale iraniano, quindi per esempio l’esercito siriano e gli aeroporti di Beirut e Damasco, per seguire i suoi spostamenti. Il direttore della Cia, Gina Haspel, che su altre questioni si è opposta con forza a Trump – per esempio ha demolito ogni tentativo di difendere il principe Bin Salman sul caso Khashoggi – aveva approvato l’eliminazione di Suleimani perché il generale era troppo pericoloso (l’Amministrazione americana ha molte difficoltà a spiegare questa cosa in pubblico).

 

Il New York Times scrive anche che c’è la possibilità che il generale iraniano fosse arrivato in Iraq per dirigere un’operazione brutale che avrebbe spazzato via il sit-in della protesta nel centro di Baghdad e installato un governo amico in Iraq. Non c’è modo di verificarlo, ma se così fosse il bombardamento americano avrebbe evitato – per il momento – una Tiananmen irachena. Messa in questo modo – la sorveglianza di diciotto mesi, il piano di Suleimani contro i manifestanti – la storia assume una luce diversa dal blitz impulsivo raccontato negli ultimi dieci giorni. E infine la ricostruzione del New York Times rivela che i bersagli scelti per l’eventuale escalation americana contro l’Iran, che poi non c’è stata, includevano molti siti militari e del settore petrolifero e nessuno “culturale”, come Trump aveva minacciato su Twitter. Nella lista degli obiettivi c’è anche una nave militare iraniana che naviga sotto copertura nel Golfo per tenere d’occhio il traffico delle petroliere e per fare da base di partenza per gli attacchi dell’Iran contro il traffico marittimo come è successo per quattro volte tra maggio e giugno. Sono tutti dettagli interessanti che però sono andati un po’ perduti nel quadro generale di questa storia.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)