Macron vs il popolo
Quel che si dice del presidente liberale dopo 40 giorni di sciopero, a destra e a sinistra. Il valore del compromesso
Quaranta e più giorni di sciopero in Francia contro la riforma delle pensioni e ieri il traffico ferroviario ha registrato un miglioramento – soprattutto quello internazionale – e a Parigi tutte le linee della metropolitana erano operative, pure se “parzialmente”. La normalità è un’altra cosa, oggi è un sogno per i francesi che si sono ingegnati per sopravvivere allo scontro sociale permanente e pubblicano manualetti utili e divertenti che stanno diventando anche un genere giornalistico. Fuori dalla Sorbona e da alcuni licei i professori scioperanti e gli studenti ancora ieri lanciavano vecchi sussidiari e vecchi quaderni, i fogli strappati volavano ovunque, fotogenici e tristissimi, ma la partecipazione allo sciopero è in calo anche nelle scuole – partecipa circa il 4 per cento degli insegnanti, giovedì la percentuale era oltre il 15 – e i sindacati si sono divisi in due parti: chi accetta il dialogo con il governo, chi vuole andare fino alla fine, cioè il ritiro completo della riforma. Alcuni esperti dicono che senza unità sindacale l’opposizione è più debole: si è raggiunto il punto massimo di tolleranza, il desiderio di normalità sta prendendo il sopravvento. Ma mentre alcuni media sottolineano che lo sciopero a oltranza non è più un’ipotesi affascinante, gli altri rispondono: non seguite la propaganda macroniana, sei francesi su dieci continuano a sostenere la protesta, il paese si è ribellato al suo presidente, e non si torna indietro.
La partecipazione alle proteste è diminuita, il fronte sindacale è diviso in due: chi accetta il dialogo, chi vuole il ritiro del progetto
Il governo ha offerto concessioni, ieri ci sono stati altri incontri di concertazione a Matignon, il premier Edouard Philippe ripete che bisogna accettare l’idea che si dovrà lavorare per più anni, mentre quaranta economisti hanno pubblicato un enorme dossier con molte proposte per favorire l’occupazione dei più anziani, come a dire: si può lavorare più a lungo (si deve in realtà, con l’aspettativa di vita oltre agli 80 anni) a patto di rendere questi impieghi disponibili e dignitosi. Il tasso d’occupazione per la fascia 50-54 anni si è stabilizzato, nel 2018, all’80,5 per cento, lo stesso livello per la fascia 25-49 anni, ma se hai tra i 55 e i 59 anni l’occupazione è al 72,1 per cento, e peggiora tremendamente se di anni ne hai tra i 60 e i 64 anni. I più giovani e i più anziani soffrono di più, pur se per motivi differenti, e si coalizzano, manifestano, dicono che il regime universale per le pensioni che Macron vuole introdurre avvantaggia sempre gli stessi, penalizza sempre gli stessi. Laddove la riforma diventa troppo cavillosa e tecnica – c’è chi accusa Macron anche di aver tradito la sua promessa di trasparenza – arriva la vita in strada, l’accusa alle forze dell’ordine che sono diventate violente, fuori controllo. Il presidente Macron ha detto ieri che le regole deontologiche per le forze dell’ordine devono essere fatte ben presente ai poliziotti e “vanno migliorate”, ma intanto si accumulano denunce, testimonianze, richieste di inchieste internazionali guidate dalle Nazioni Unite: sarà mica questa la democrazia liberale di cui parla Macron, vero?
A leggere i resoconti su quel che sta accadendo in Francia ci si imbatte in analisi molto severe. Il Point ha pubblicato sul suo ultimo numero un dossier su Macron che “si sgonfia”, in cui si ricorda che il debito pubblico ha superato la soglia del 100 per cento del pil, mettendo la Francia al pari di Grecia, Italia, Cipro o Portogallo. E la riforma rischia di essere come le altre, “iniqua, deficitaria e finanziata a credito”, la riforma che non trasforma nulla, insomma. Il Point critica Macron perché non ha abbastanza coraggio, perché non ribadisce che la globalizzazione è una chance per tutti e le riforme pure: il giornalista economico Pierre-Antoine Delhommais dice che anzi il presidente s’è messo a parlare “come un attivista di Attac”, movimento altromondista, quando “denuncia ‘un capitalismo diventato pazzo’ o ‘questa Europa ultraliberale esposta a tutti i venti’”.
La Zeit tedesca, uno dei giornali più belli e autorevoli d’Europa d’ispirazione liberale, ha pubblicato un lungo articolo sulle proteste e su Macron la cui sintesi è: il presidente liberale è diventato il nemico del popolo, gioca a fare la Thatcher senza averne la statura, si è posto come antidoto al populismo europeo ma finirà per far risorgere e persino vincere la destra di Marine Le Pen. Avete preso un abbaglio, voi europei antipopulisti, scrive Annika Joeres dal sud della Francia (è una grande esperta di relazioni franco-tedesche), “già prima dell’elezione del 2017, era chiaro che Macron non fosse un uomo del popolo”, troppo distante, troppo elitario, troppo arrogante. “Questo è il vero pericolo per la Francia e l’Europa – conclude la Joeres – e proviene dalle politiche neoliberali del presidente. Se Macron non ha idea né volontà di pacificare o almeno empatizzare con le persone che si sentono abbandonate, finirà per aiutare l’estrema destra ad andare al potere”.
I giornali pubblicano analisi parecchio severe nei confronti del presidente antipopulista che non riesce a maneggiare il popolo
Si è fatta strada la percezione che il presidente francese non soltanto non sappia gestire il malcontento della piazza ma abbia portato lo scontro sociale a livelli mai visti. La protesta dei gilet gialli è iniziata nel novembre del 2018, cioè ormai quattordici mesi fa, e per quanto si sia estremizzata e poi indebolita non ha mai smesso di esistere. Anzi, si è saldata alle manifestazioni contro la riforma delle pensioni: ancora ieri a Marsiglia la protesta quotidiana di chi urla “andremo fino alla fine” è stata aperta da un gruppo di rappresentanti dei gilet gialli. Vuol dire che, a parte qualche pausa e nonostante i débats con i cittadini per “ascoltare” le esigenze delle persone, la stagione macroniana è scandita da proteste permanenti. Il Conseil d’analyse économique, un centro studi vicino a Matignon, ha pubblicato un report in cui studia il fenomeno dei gilet gialli intrecciandolo con un malessere più generale, “un malessere nazionale”, declinato seguendo alcuni sintomi: la disoccupazione, la chiusura di negozi a conduzione familiare, l’aumento delle imposte locali, i prezzi delle case. Ne viene fuori un affresco deprimente di una qualità della vita in continuo deterioramento, ancora più drammatico se di fianco compare l’immagine di un presidente sprezzante con la fissazione delle riforme, innamorato di una formula liberale che non tiene conto del disagio reale.
Molte denunce contro la violenza delle forze dell’ordine. Il presidente chiede di migliorare le regole deontologiche
Alcuni, come Brice Couturier, autore di un libro su Macron, dicono che sono all’opera i soliti ingegneri del caos – cita il libro di Giuliano da Empoli – che riescono a “far passare una riforma egalitaria per una regressione sociale”. Couturier, che sul suo account Twitter segnala tutte le storture della copertura mediatica e anche i numeri effettivi dei partecipanti agli scioperi, dice che Macron sta mettendo in pratica il suo programma che si fonda su “libertà e protezione”, “liberare le energie e l’innovazione, proteggere gli individui”: “Si tratta di passare da un sistema conservatore-corporativista a un regime socialdemocratico, in cui la protezione sociale, giusta e universale, ci accompagna per tutta la nostra vita. Rafforza l’autonomia dell’individuo, lo guida nelle sue scelte, incoraggia la sua mobilità”. Ma, sostiene Couturier, il danno sembra fatto, l’intossicazione informativa ha fatto sì che la riforma equivalga a un impoverimento, che le categorie più deboli pagheranno tutto, che non ci sono le coperture e che l’azzardo di Macron è fallito. Di più: è fallito il progetto liberale, perché agli occhi del mondo Macron non è soltanto il presidente della Francia, è il custode di un ordine e di un equilibrio, e se lui, l’antipopulista, non sa maneggiare il popolo, allora ritorneranno i populisti.
Christian Lequesne, professore di Scienze politiche a Sciences Po, “sostenitore del pragmatismo presidenziale”, come lo definisce il Monde pubblicando un suo articolo, dice che Macron è stato eletto per far uscire la Francia “dall’inerzia”, ed è quello che sta facendo: lo scontro sociale non l’ha creato lui, anzi lui sta provando a domarlo. Lequesne dice al Foglio che un giorno il pragmatismo “della negoziazione si imporrà, ma sarà molto tardi”. Secondo il professore, Macron è il contrario di un manager, i quali spesso hanno come obiettivo “zero problemi”, che vuol dire non creare mai conflitti, quindi restare inerti. Macron, che vuole trasformare il paese, invece si crea un sacco di problemi, soprattutto in una Francia in cui, secondo Lequesne, “i rapporti di forza si continuano a imporre per realizzare qualsivoglia decisione collettiva”: “Negoziare: è la parola essenziale che manca alla Francia – scrive Lequesne sul Monde – Le élite del governo così come i sindacati hanno l’impressione che negoziare le questioni sociali significhi prima di tutto cedere all’altro. Così la Francia è spesso orgogliosa di affermare che sa resistere al liberalismo, ma bisognerebbe precisare: resiste soprattutto al liberalismo politico che considera il compromesso un valore”. Per Lequesne non è vero che la Francia è un paese nel quale tutti accettano con fatalismo il fatto che il progresso sociale passi per scioperi, blocchi e violenze: racconta di aver fatto uno studio sui francesi che sono andati all’estero che si ribellano “all’isteria collettiva” in cui non si guarda il risultato, ma soltanto l’ideologia che alimenta lo scontro. Il professore di Sciences Po finisce presto nel dilemma che riguarda un po’ tutti noi, non soltanto Macron che pure ha un’urgenza maggiore visto che deve affrontare una protesta permanente: il dialogo, la negoziazione, l’avvicinamento, l’ascolto. E’ così che si va al potere e poi si riesce a governare? Il pragmatismo non è una rinuncia alla politica, è politica, “i giovani potranno giocare un ruolo nella costruzione di questa cultura del negoziato”, conclude Lequesne, “ma ci vorrà tanto tempo”. Perché i giovani ora lanciano i libri vecchi per aria, denunciano la brutalità della polizia, protestano fino alla fine contro il presidente che un po’ concede, un po’ s’impunta, e non può cedere.