Le donne in India rompono due tabù: l'esclusione e il patriottismo a senso unico
Le proteste con la bandiera e i mariti a casa
Fosse anche il suo ultimo passo, Asma Khatun lo ha fatto per gridare “libertà” in piazza, lei che ha novant’anni e un freddo tremendo e molti nipoti che le dicono: torna a casa. Asma non si muove, sta seduta in mezzo alle proteste che da quaranta giorni scuotono l’India dopo che il governo di Narendra Modi ha introdotto una legge sulla cittadinanza che è stata vissuta come una discriminazione contro i musulmani in particolare, ma in generale contro tutto ciò – persone, simboli – che non corrisponde al dogma dell“Hindutva”, il nazionalismo induista. La protesta è nata nei quartieri a prevalenza musulmana – il centro è Shaheen Bagh, a sud di Nuova Delhi – ma in questa piazza piena di donne, animata dalle donne, non ci sono solo musulmane: è una protesta in cui si sventola la bandiera indiana, si canta l’inno indiano, il nazionalismo non è una faccenda a senso unico, l’identità nazionale non ha un unico colore o un’unica religione. E per molte di queste donne il passo è doppio, perché non c’è soltanto la volontà di difendere l’appartenenza all’India, c’è anche la ribellione al silenzio e allo starsene in disparte perché così vogliono le regole della società o semplicemente della propria famiglia.
Nei racconti delle proteste indiane contro la legge sulla cittadinanza ci sono casalinghe che non avevano mai sentito l’urgenza di mostrarsi e urlare e sventolare una bandiera, o se l’avevano sentita l’avevano repressa, perché l’unica cosa di cui hanno avuto davvero esperienza è l’esclusione. Queste donne, giovani e anziane, raccontano di mariti che all’inizio avevano detto: sei pazza, non esci di qui, ma loro non li hanno ascoltati, hanno preso le figlie, i figli, le amiche, gli amici, si sono messe in piazza e a casa tornano soltanto ogni due giorni per cambiarsi. Un video che è diventato virale mostra cinque ragazzine, con il velo e senza, che difendono un ragazzo dai manganelli della polizia. Quando spiegano perché si sono rivoltate, molte donne parlano del futuro dei loro figli, della paura che un giorno possano non poter più vivere in India, della società maschilista anche, ma a muoverle è la voglia di “azadi”, di libertà, e l’appartenenza a una nazione che chiamano casa e che vogliono continuare ad abitare.
Nella società indiana, le donne sono fragili, spesso non hanno i documenti perché sono state prese dal posto in cui sono nate per andarsi a sposare da un’altra parte: non c’è traccia della loro identità, e loro oggi la ritrovano specchiandosi l’una nell’altra e nella bandiera che tiene unito il paese. Noi ci interroghiamo tutti i giorni sul ruolo delle donne, un passo indietro e uno avanti, e su quello delle identità nazionali: i cortocircuiti sono talmente tanti che abbiamo cominciato a pensare che il patriottismo sia diventato uno slogan di parte e maschissimo, non un sentimento né un’appartenenza. Il governo Modi, che sta usando metodi poco liberali per governare le manifestazioni (esercito, coprifuoco, stato d’emergenza e accesso limitato alla rete), dice che queste proteste sono “non indiane”, anzi “anti indiane”, e i facinorosi si riconoscono facilmente da come si vestono. Le donne si siedono lì e non si muovono, bloccano le strade, fanno da mangiare, portano le coperte perché un freddo così in India non c’era da cent’anni, scoprono di avere una voce e un’identità e un’appartenenza, e a chi dice loro che sono anti indiane mostrano l’immagine di B.R. Ambedkar, l’architetto della Costituzione indiana, che diceva unità, inclusione e patria nella stessa frase, la prima formula che mise fuori legge la discriminazione.