Prevenire il genocidio dei rohingya. Ecco cosa vuol dire il primo giudizio dell'Aia
I giudici ordinano al governo guidato da Aung San Suu Kyi di prendere i provvedimenti necessari per evitare il ripetersi dei crimini. Le accuse ai militari e il possibile sviluppo di una situazione molto complessa
L’Aia. Il giudizio della Corte internazionale di giustizia nella causa della “applicazione della convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” da parte del governo del Myanmar nei confronti del gruppo etnico rohingya è stato unanime e impeccabile. Nell’aula del palazzo della pace dell’Aia, ascoltando il presidente della corte, il somalo Abdulqawi Ahmed Yusuf, darne lettura per oltre un’ora, era difficile sollevare obiezioni. Nella dichiarazione finale si afferma che i rohingya sono a rischio di ulteriore violenza e si ordina al governo del paese di prendere i provvedimenti necessari per evitare il ripetersi dei crimini. Ma si afferma pure che l’intento del genocidio dovrà essere oggetto di ulteriori indagini. Del resto, se si fosse accertato, affidando al governo del Myanmar la protezione dei rohingya si rappresenterebbe uno spettacolare caso di paradosso.
Secondo la vicepresidente della corte, la cinese Xue Hanqin, per quanto il tribunale non fosse chiamato a pronunciarsi in merito, le prove e i documenti mettono in evidenza non un genocidio bensì una persecuzione comune a diverse minoranze etniche in Myanmar. Ma per alcuni osservatori questa valutazione è la dimostrazione della rinnovata alleanza tra Myanmar e Cina, poiché è simile alla linea di difesa esposta da Aung San Suu Kyi. L’11 dicembre scorso, infatti, colei che a gran parte dell’opinione pubblica mondiale appare come la complice o addirittura l’ispiratrice dei delitti birmani, si è presentata davanti ai giudici ammettendo le violenze nei confronti dei rohingya, ma affermando che non esprimevano un intento di genocidio bensì gli eccessi compiuti da Tatmadaw, l’esercito, in un conflitto interno. Nel caso specifico si sarebbe trattato della risposta agli attacchi dell’Arakan Rohingya Salvation Army, finanziato e addestrato da cellule di al Qaida e dello Stato islamico (così come riportato da fonti dell’intelligence indiana).
Come è stato scritto, la Signora ha così deciso di “difendere l’indifendibile”: in questo caso, bisogna ammettere che ha disegnato lo scenario di un conflitto che definire asimmetrico è un eufemismo. Ma bisogna anche considerare che in questo teatro i rohingya non sono gli unici di cui deve tener conto. In Rakhine, la regione birmana in cui sono stabiliti i rohingya, si sta rafforzando l’Arakan Army, milizia buddhista che ne rivendica la sovranità e considera Aung San Suu Kyi troppo morbida.
Più si tenta di analizzare la questione rohingya, più appare come una variabile nella complessità della geopolitica asiatica. Che al tempo stesso è semplificata in una rappresentazione di scontro tra Bene e Male nella cui narrazione Suu Kyi diviene una Medea e la parola “genocidio” sintetizza l’orrore.
Ecco perché, nonostante la Corte dell’Aia debba ancora pronunciarsi, per molti osservatori ha già emesso un verdetto. La vicenda viene anche presentata come uno scontro tra Davide e Golia: alla forza del Myanmar si contrappone il “piccolo stato del Gambia”, come è stato definito il paese africano che ha intentato la causa. Omettendo il dettaglio che lo ha fatto a nome dei 57 paesi che compongono l’Organizzazione per la cooperazione islamica.
Seguendo e osservando gli sviluppi di questa vicenda anche nella capitale olandese, è sempre più difficile non rilevare come i rohingya siano i protagonisti di una spettacolare operazione di marketing. Ancor più difficile trovarne le prove, ma l’obiettivo appare chiaro. “La sentenza di oggi è solo il primo passo” ha dichiarato il rappresentante della Free Rohingya Coalition. L’obiettivo è il riconoscimento dei rohingya quale etnia birmana. Condizione che il governo del Myanmar non può accettare: i rohingya sono considerati bengalesi immigrati illegalmente e un loro riconoscimento potrebbe innescare una migrazione biblica dal Bangladesh. In questa geopolitica del paradosso ciò significherebbe la creazione di un corridoio islamico nel sud est asiatico.
Una reincarnazione di Aung San Suu Kyi potrebbe sciogliere l’intreccio: col rinnovato sostegno popolare e dei militari dopo il suo passaggio in Olanda, potrebbe davvero essere la leader, non sub condicione, del paese, negoziare accordi con tutte le forze etniche e creare le basi per un riconoscimento dei rohingya. E’ la soluzione meno paradossale.