La resistenza cinese
A Hong Kong le proteste non sono finite, ma sono cambiate. Un viaggio nell’economia circolare gialla e tra le nuove speranze di autonomia
Il programma ufficiale annunciava per l’apertura dei lavori “il discorso di un alto rappresentante del governo di Hong Kong”. Ma le misure di sicurezza all’ingresso del Centro congressi ed esposizioni del quartiere di Wan Chai fanno sospettare qualcosa di diverso: gli ascensori sono bloccati, i partecipanti arrivano al quinto piano attraversando un percorso obbligato, che prevede il controllo dei documenti e l’ispezione delle borse. Inusuale, per una città che fino a poco tempo fa non era abituata a certi controlli (piuttosto normali, invece, nelle città occidentali a rischio attentati). Alle nove del mattino la voce al microfono annuncia l’ingresso della governatrice di Hong Kong, Carrie Lam. La musica in sottofondo rende meno imbarazzante la fredda accoglienza della chief executive, arrivata a guidare l’ex colonia britannica nel 2014, nel mezzo delle proteste degli attivisti di Occupy Central. La Lam sorride di rado, ultimamente. E già da un po’ non è possibile consultare l’agenda dei suoi appuntamenti pubblici. La governatrice si muove come un fantasma. E’ uno dei segnali del cambiamento: le proteste che vanno avanti da giugno hanno cambiato Hong Kong. E hanno cambiato soprattutto quel patto sociale tra governo e cittadini che sin dal 1997 – l’anno del passaggio da Londra a Pechino, con le garanzie stabilite di un’ampia autonomia – si basava sulla fiducia tra cittadini e istituzioni.
La Cina è sempre al centro dei discorsi di Carrie Lam e dei funzionari del governo. Tutti gli altri parlano solo di Hong Kong
L’Asian Financial Forum è un appuntamento annuale organizzato dall’Hong Kong Trade Development Council. E’ la celebrazione dell’economia, degli investimenti, della finanza e della tecnologia, cioè di tutto quello che da sempre è la forza e la narrativa di Hong Kong. Le radici del territorio autonomo cinese sono questi: più di mille chilometri quadrati regolati dal Common Law, con la sua moneta, la sua lingua, la sua Borsa, il suo ambiente finanziario rassicurante rispetto alle autoritarie regole di Pechino, soprattutto dopo la svolta del 2012 del leader Xi Jinping. E’ qui che arrivano gli investitori occidentali che vogliono avere un passaggio per la Cina continentale, ripetono di continuo e con fierezza i funzionari di Hong Kong, ma la verità è che qui arrivano soprattutto le aziende cinesi che vogliono affacciarsi sul mondo. Usando lo stato di diritto che esiste a Hong Kong. La Borsa dell’ex colonia britannica lo scorso anno ha fatto il record di offerte pubbliche iniziali, ma le aziende, specialmente quelle tecnologiche, quotate a Hong Kong, sono soprattutto cinesi, e il maggior colpo è stato quello di novembre di Alibaba, il colosso cinese fondato da Jack Ma.
A Sheung Wan, nell’area di SoHo (nome che viene da South Hollywood road), si trova il Pak Tsz Lane Park. Sembra un parco normale, a due passi da una delle strade più trafficate del centro di Hong Kong. Ma è molto di più. E’ il luogo simbolo della resistenza, dell’identità dell’ex colonia britannica, non solo politica, anche storica e culturale. Qui a fine Ottocento si incontravano intellettuali, leader politici e rivoluzionari come Yeung Ku-wan e Tse Tsan-tai (tra le altre cose, uno dei fondatori del South China Morning Post). Qui, il 13 marzo del 1892, venne aperta la Furen Literary Society, un’associazione per promuovere le idee rivoluzionarie contro la dinastia Qing. Inaugurato nel maggio del 2011 per commemorare i cento anni dalla Rivoluzione Xinhai e dall’abdicazione dell’imperatore Pu Yi, nel parco oggi è ben visibile una targa con il motto dell’associazione, in latino: Ducit Amor Patriae. Ed è difficile da interpretare, a Hong Kong: quale patria? La Cina, come vorrebbe Pechino, oppure “il porto profumato”, cioè la traduzione letterale di “hong kong” dal cantonese? Dalla parte opposta, la statua di bronzo a grandezza naturale di un uomo, vestito all’occidentale, che taglia la tradizionale treccia di un manciù della dinastia Qing. Il gesto ultimo di sottomissione, e liberazione.
I cinesi ora a Hong Kong vogliono andarci di meno: per boicottaggio o per il timore di ritrovarsi in situazioni spiacevoli
L’eredità della Furen Literary Society è ancora qui. In cima al parco c’è un luogo altrettanto quieto, ma tra i più famosi di Hong Kong. Non è un pub come un altro, è il Club 71. La fondatrice è Grace Ma Lai-wah, attivista, regista, uno dei nomi più noti della società civile di Hong Kong. Nel 1989 qui vicino aprì il Club 64, e il 64 sta per 4 giugno, il giorno del massacro di piazza Tiananmen. In un’intervista al South China Morning Post di qualche anno fa, Grace si commuove a ripensare a quei giorni: “Non ha cambiato il modo in cui vedevo la Cina, ma ha cambiato il modo in cui vedevo il Partito comunista. E’ molto facile che la gente dimentichi. Speravo che il bar potesse spingere le persone a continuare a parlare del 4 giugno, anche per sbaglio, di tanto in tanto”. Nel 2004 il proprietario del primo locale, scrive Varsity, il giornale online della Chinese University of Hong Kong, raddoppiò il prezzo dell’affitto e quello che ormai era un popolare locale si trasferì sopra al Pak Tsz Lane Park. Per continuare lo spirito del 64, Grace decise di chiamarlo Club 71 – la celebrazione di un altro giorno cruciale per la storia di Hong Kong. Il primo luglio del 2003 più di cinquecentomila persone scesero in piazza per protestare contro l’implementazione dell’articolo 23 della Basic Law di Hong Kong, che consegna nelle mani del chief executive “pieni poteri” nel caso di atti di sedizione, tradimento e sovversione contro il governo centrale della Repubblica popolare cinese (un record di partecipazioni, superato solo il 16 luglio dello scorso anno, con due milioni di persone in strada). La discussione di quella legge, e il conseguente movimento di protesta, è il luogo dove andare a guardare per capire l’evoluzione politica e della società civile di Hong Kong. E come siamo arrivati a oggi.
Il Club 71 è un ottimo punto di partenza. Sulle pareti pezzi d’arte, murales, manifesti pro-democrazia. Accanto alla cassa, un salvadanaio dice: sostieni le proteste. Il colore dei messaggi è quasi sempre il giallo: giallo come i post-it dei Lennon Wall, i muri dei messaggi democratici che Hong Kong ha preso in prestito da quello di Praga negli anni Ottanta, e che ora nascono come funghi un po’ ovunque nel mondo. Giallo come gli ombrelli delle proteste del 2014. Giallo come i fiocchetti che dal 2014 sono il simbolo degli attivisti che chiedono la verità sulla tragedia del Sewol, il traghetto sudcoreano che affondò al largo delle coste di Incheon facendo quasi trecento morti, quasi tutti ragazzini. Nella simbologia cinese il giallo è il colore nobile dell’imperatore, e quindi vietato ai comuni mortali. E’ il quinto elemento, quello che rappresenta la terra, la solidità, la direzione. Nel buddismo il giallo è la capacità di elevarsi dai bisogni terreni. E forse non è un caso se il carattere cinese huáng (che poi, in un modo ancora poco chiaro, forse mutuato dai giornaletti gialli inglesi, oggi significa anche “pornografia”) è lo stesso per il kanji giapponese, e si pronuncia in modo molto simile anche in coreano. Il Club 71 è uno dei tanti esercizi commerciali che partecipano al “yellow economic circle”, l’economia circolare gialla. La riflessione che facevano gli osservatori, soprattutto all’estero, dopo le battaglie urbane di questi mesi a Hong Kong, era: ma ora cosa succede? La lezione di Hong Kong viene dalla capacità dei suoi attivisti, cioè di coloro che più di ogni altra cosa tengono alla sua autonomia, di mutare forma, secondo l’insegnamento di Bruce Lee, “siate come l’acqua”. L’economia circolare gialla viene sostenuta già da qualche mese: è una rete di negozi, esercizi commerciali, ristoranti di ogni tipo che sostengono le proteste e boicottano il Partito comunista e con lui “le brutalità della polizia”. “E’ una pratica diventata un’abitudine per gli attivisti di Hong Kong”, ha scritto Alexandra Chan sul Diplomat. “E’ un modo alternativo per partecipare al movimento e sta diventando una nuova normalità. Anche se la partecipazione di ognuno sembra indiretta, piccola e insignificante, l’istituzione di questa economia circolare gialla è una delle forme più radicali, progressiste e innovative di lotta a lungo termine contro la struttura del potere politico ed economico di Hong Kong”. Di fronte a Golia, cioè alle mire espansionistiche di Pechino, come può il piccolo porto profumato portare avanti una protesta che ha già fatto molti danni, soprattutto tra i più giovani? Gli arresti di massa anche tra ragazzi ai primi anni del liceo compiuti dalla polizia di Hong Kong – un tempo il corpo che godeva della fiducia più assoluta tra tutte le autorità asiatiche – sono serviti a terrorizzare le nuove generazioni e soprattutto le famiglie: i giovani che escono su cauzione devono aspettare anni per un processo, ma nel frattempo hanno il futuro compromesso, non possono andare all’estero per studiare, hanno la fedina penale sporca e hanno sempre più paura di scendere di nuovo in strada. L’aumento dei suicidi anche nelle fasce d’età più basse, negli ultimi mesi, è stato spesso messo in relazione con questo periodo di proteste e con l’impasse del movimento, ormai “all’ultima battaglia”, come se dopo non ce ne potesse essere un’altra. E intanto la morsa di Pechino si avvicina. Ma è proprio da questa situazione di stallo, che sembra avere un unico ineluttabile epilogo, che sembrano nascere l’alternativa, le idee. Consumare nei bar e nei negozi gialli significa far fronte a un problema difficile da affrontare, e che dal governo di Pechino e da quello locale di Carrie Lam viene propagandato come la conseguenza più grave delle proteste: il sistema economico delle piccole e medie imprese è in difficoltà. Il governo di Hong Kong ha messo in campo alcune misure economiche di sostegno, per un budget complessivo di 25 miliardi di dollari di Hong Kong. Ma è davvero così? Sì e no.
Qui nel 1892 venne aperta la Furen Literary Society, un’associazione per promuovere le idee rivoluzionarie contro la dinastia Qing
Secondo i dati del governo, nel 2019 il turismo a Hong Kong – una delle città più visitate al mondo – è calato del 14 per cento. Solo nel mese di ottobre 2019 il calo è stato del 43,7 per cento. E’ un danno economico notevole, a cui va aggiunto, adesso, il problema del nuovo coronavirus che evoca i terribili dati del 2003, quando la Sars praticamente azzerò i viaggi turistici. Ma il turismo è soltanto il 4 per cento del pil di Hong Kong. E c’è un altro dato interessante da tenere a mente. Al dicembre 2018, cioè subito prima dell’inizio delle proteste, secondo le statistiche dell’Hong Kong Tourism Board, quasi l’80 per cento dei turisti arrivava dalla Cina. Tra il gennaio e il novembre del 2019 dalla Cina ci sono stati il 10 per cento di arrivi in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I cinesi ora a Hong Kong vogliono andarci di meno: per boicottaggio – perché vedono nei manifestanti dell’ex colonia inglese gli ingrati e privilegiati ribelli di un paese che sta raggiungendo il sogno di essere una potenza egemone – ma anche per il timore di ritrovarsi in situazioni spiacevoli. La dipendenza dal turismo cinese è un problema comune dell’area asiatica, soprattutto perché a Hong Kong i cinesi vanno a fare shopping, grazie al miglior potere d’acquisto e alla tassazione vantaggiosa anche sui prodotti di lusso. Da un lato la narrativa del governo di Carrie Lam e quella di Pechino è questa qui: guardate cosa state facendo, per colpa vostra l’economia va a rotoli. D’altra parte, i macronumeri dell’economia e della finanza ci dicono tutto il contrario, e cioè che il sistema economico di Hong Kong tiene, e il suo status strategico di autonomia è sfruttato in primo luogo proprio dai cinesi. E la vita prosegue normale, anche con meno turisti, anche durante le proteste più violente. I problemi economici ci sono – e questo lo dicono, ma sempre meno volentieri, i funzionari del governo – arrivano da prima delle proteste, dalla guerra commerciale tra America e Cina, dalla crisi economica globale. E soprattutto dalla crisi di Hong Kong, che arriva da molto lontano. Lo spiega in un fondamentale libro pubblicato nel 2018 – un anno prima del caos – l’economista inglese Leo Goodstadt, che tra il 1989 e il 1997 faceva parte del governo di Hong Kong. In “A City Mismanaged” (HKU press) Goodstadt scrive che nei vent’anni tra il 1997 e il 2017 ci sono state parecchie crisi nell’ex colonia britannica, ma quasi tutte sono state peggiorate dal malgoverno della regione autonoma. La storia della “più vibrante economia del mondo” ha portato a trascurare di proposito problemi sociali fondamentali: la demografia, l’istruzione, il mercato immobiliare. Lo si vede, secondo Goodstadt, nel fatto che la Costituzione, la Basic Law, è stata via via applicata “selettivamente”, secondo princìpi finanziari e non di diritti civili e sociali. Questo argomento economico è importante soprattutto se si pensa all’obiettivo ultimo di Pechino, che è facilmente intuibile parlando con i funzionari di governo di Hong Kong. L’espressione che viene ripetuta più spesso è “Greater Bay Area”. E’ l’area che comprende Hong Kong, Macao, Canton, Shenzhen (e poi Zhuhai, Foshan, Zhongshan, Dongguan, Huizhou, Jiangmen e Zhaoqing) e che dovrebbe trasformarsi, nei sogni di Xi, in un unico grande hub finanziario, turistico, tecnologico: insomma economico. Per farlo, c’è bisogno che le varie anime dell’area si rincorrano e come vasi comunicanti finiscano per somigliarsi. I punti deboli del progetto per ora sono due: Hong Kong, con il suo istinto democratico, e il gioco d’azzardo di Macao. La Greater Bay Area è la soluzione più cinese possibile per contenere, letteralmente, la ribelle Hong Kong, perché, come nel gioco del Go, vince chi è riuscito ad accerchiare e a dominare l’area. Ma la natura di Hong Kong sa essere sorprendente.