Dopo l'Iowa, i democratici americani non sanno più come recuperare il ritardo tech su Trump
Cosa non è andato e perché nel primo appuntamento delle primarie del partito democratico statunitense
Milano. Kara Swisher, probabilmente la più tosta tra tutti i giornalisti tecnologici americani, una veterana che da un paio d’anni è entrata nel team editoriale del New York Times, ha intitolato così la sua column uscita ieri: “Spiacente, i repubblicani hanno conquistato internet”. Swisher si riferisce ovviamente alla débâcle terribile subìta dal Partito democratico americano nelle primarie in Iowa, dove il malfunzionamento di una app voluta e realizzata dai dem ha disintegrato la buona riuscita dei caucus. (Nota: i caucus si sono svolti in buon ordine, e le votazioni sono state fatte senza intoppi. Il problema è sorto quando i singoli caucus hanno cercato di comunicare i risultati alla sede centrale del Partito democratico mediante la app, ed è stato così intricato che più di 36 ore dopo la chiusura delle votazioni ancora i risultati definitivi non erano stati resi pubblici).
Il fiasco dell’Iowa ha cementato un’idea che si fa strada ormai da tempo nella politica americana: il Partito democratico di Barack Obama, quello che parlava ai nativi digitali, che aveva la migliore tecnologia politica della storia e in cui le porte girevoli tra la Casa Bianca e la Silicon Valley si muovevano vorticosamente, è diventato obsoleto e bolso. Al contrario il Partito repubblicano, quello dei baby boomer, sotto Donald Trump e Brad Parscale, il capo della sua campagna, è diventato una macchina da guerra elettoral-digitale, capace di approfittare di ogni cavillo e di ogni debolezza del sistema pur di acchiappare qualche clic in più, con una sfrontatezza che i democratici non avranno mai.
“Ci siamo adagiati sugli allori”, ha detto al Foglio Raffi Krikorian, ex engineering director di Uber ed ex vicepresidente di Twitter, e soprattutto ex capo della tecnologia del Partito democratico americano tra il 2016 e il marzo del 2019. La conversazione con il Foglio è avvenuta prima del disastro in Iowa, ma l’analisi non cambia. “Abbiamo pensato di essere i migliori con la tecnologia, e il problema con la tecnologia è che appena ti fermi rimani indietro, le persone devono viverla e respirarla giorno per giorno e noi non l’abbiamo fatto”, continua Krikorian.
Ieri Evan Henshaw-Plath, un celebre informatico che è stato nel team fondativo di Twitter (significa che è uno dei primi impiegati in assoluto di Twitter) e ha una storia decennale di attivismo politico con i democratici, ha scritto un lunghissimo thread sul social network per raccontare le ragioni del disastro tech dei democratici. Si può leggere per intero sul suo profilo (@rabble), ha alcuni passaggi un po’ tecnici, ma la parte più impressionante è questa: “Un paio di giorni dopo la rielezione di Obama (dunque nel 2012, ndr), i membri dello staff politico entrarono nel piano tecnologico del quartier generale della campagna elettorale di Obama, e si chiesero dove fossero finiti tutti. Erano stati tutti licenziati, @harper aveva trovato per loro lavori nell’industria e tutti erano svaniti in varie aziende tecnologiche”. Tweet successivo: “Da un team che contava centinaia di persone, una manciata è andata a lavorare alla Casa Bianca oppure a Ofa (una non profit democratica, ndr), ma per la maggior parte tutta quella conoscenza è andata persa”. @harper, citato nei tweet, è Harper Reed, mitologico capo tech della campagna obamiana con orecchini, barba folta e occhiali grossi, che stava a Obama come oggi Parscale sta a Trump. Nel 2012 Reed fu osannato come eroe dell’internet, ma dopo la vittoria elettorale si è disinteressato della politica attiva e ha cominciato una carriera comoda da conferenziere e imprenditore. Lo stesso hanno fatto altre figure chiave di quell’èra, come Michael Slaby ed Eli Parisier.
C’è anche un problema di soldi, come ci ha spiegato Krikorian (lo fa anche Henshaw-Plath nel suo thread): “I finanziamenti arrivano tutti assieme poco prima delle elezioni presidenziali, e poi si esauriscono completamente subito dopo le elezioni. Così è difficile costruire infrastrutture che durino nel tempo. Specialmente se non c’è qualcuno che si occupa della tecnologia a tempo pieno e difende il lavoro fatto, la tecnologia è la prima cosa a essere tagliata, e questo significa che bisogna sempre ricominciare daccapo e realizzare nuove tecnologie nei sei mesi prima delle elezioni. Non è così che è stato costruito l’iPhone”. Il risultato è che le infrastrutture digitali del Partito democratico sono in ginocchio, e non sembra che l’intervento di Krikorian abbia migliorato molto le cose.
Al contrario, dopo aver vinto le elezioni del 2016 Brad Parscale non si è mai riposato un attimo. La macchina elettorale trumpiana si è convertita in macchina della propaganda del presidente ed è rimasta sempre attiva. E’ anche strutturalmente più agile. Parscale non costruisce infrastrutture digitali e non dipende da un partito – specie da uno disorganizzato come quello democratico, che Jeff Connaughton, ex uomo di Joe Biden, in un libro di qualche anno fa definì “il blob”. La macchina di Parscale lavora per Trump e per Trump soltanto, e non è una software house: è una centrale di propaganda, che non ha come obiettivo costruire qualcosa ma disseminare notizie virali, poco importa se vere o false, incitare le armate dei troll, fare microtargeting su Facebook. Questo è relativamente più facile da fare, anche se richiede comunque enorme abilità. Non è un caso che l’altra campagna elettorale efficace dal punto di vista digitale abbia adottato un modello distruttivo simile, con gli stessi troll ma meno fake news: è quella di Bernie Sanders.