La Buttigiegmania non contagia i millennial. Ma pure certe donne storcono il naso
Calma e faccia tosta è il mix di mayor Pete e della sua spin doctor. Godiamocelo
Milano. Finché dura godiamocela, questa Buttigiegmania, l’unica sorpresa di un’America che ci colpisce soltanto per il suo livore, per la sua rabbia, per i suoi capricci. Il rischio che Pete Buttigieg (“chiamatemi Pete”, come dice lui, superando l’impronunciabilità del suo cognome) sia una meteora di inizio campagna elettorale è alto, ma intanto ci racconta una storia nuova, promettente, giovane senza averne l’aria – e ce n’è bisogno. Il caos in Iowa non è ancora risolto, c’è un pareggio di fatto tra Buttigieg e Bernie Sanders, ma il primo ha avuto la faccia tosta di dire “sembra che io sia il vincitore” ed è partito subito per la seconda tappa delle primarie, in New Hampshire, dove ha tenuto tanti comizi durante i quali non ha riaperto la questione dell’Iowa ma ha continuato a fare come se fosse il vincitore. L’effetto immediato, così dicono i sondaggi, è che è balzato al secondo posto nelle preferenze del New Hampshire, superando Elizabeth Warren e soprattutto Joe Biden, che nello scontro interno al Partito democratico è il rivale diretto nella conquista del voto moderato. Il balzo potrebbe essere soltanto l’effetto della Buttigiegmania, effimero e sopravvalutato, ma ancora una volta, il sindaco della cittadina di South Bend, in Indiana, usa il metodo appena sperimentato in Iowa: fa come se questo fosse davvero l’inizio di una sorpresa, dice in perfetto stile obamiano 2008 che nessuno ci credeva, eppure eccomi qui.
La faccia tosta, che non sembra nelle corde di una candidatura fondata sulla calma, sul controllo, sulla moderazione e sul dialogo, è il frutto del lavoro del capo della comunicazione della campagna elettorale di Buttigieg, Lis Smith, millennial come il suo capo ma molto più nota di lui nel mondo democratico. La Smith ha lavorato in molte campagne elettorali di leader democratici, ne ha perse tante e ne ha vinte alcune, è sopravvissuta alla stagione “fidanzata-di”, per di più con un fidanzato che si chiama Eliot Spitzer, storico procuratore generale di New York, poi governatore dello stato e infine dimissionario, all’inizio degli anni Duemila, per uno scandalo legato a un giro di prostitute. Il New York Post, tabloid murdocchiano, dedicò allora e per molto tempo dopo molte attenzioni alla Smith, raccontando dettagli erotici della sua relazione con Spitzer e poi dedicandosi al rapporto burrascoso (non amoroso) con il sindaco di New York Bill De Blasio, per il quale la Smith ha lavorato. Oggi lei dice che non può vivere senza leggere il New York Post: faccia tosta.
La Smith ha provato a trasformare uno sconosciuto sindaco dell’Indiana, soldato in Afghanistan e gay, in un candidato presidenziabile, e ora tutti le dedicano attenzioni e ritratti, come si conviene in questi giorni di Buttigiegmania. Lei sorride e regala aneddoti, studia tutti dietro ai suoi occhiali da sole scurissimi, si fa amare e temere, costruisce il mix tra la faccia tosta e la reticenza naturale del suo candidato tranquillo. Entrambi sanno che questa prima fase delle primarie è quella in cui bisogna far esplodere la mania, perché poi arrivano gli stati in cui Buttigieg ha tante debolezze: per questo la campagna si è concentrata tantissimo in Iowa, dove gli attivisti sono stati istruiti non ad attaccarsi al telefono ma a raccontare “mayor Pete” ai propri parenti, vicini, colleghi: è il candidato di cui si parla in famiglia.
Questo duo millennial fa orrore ai millennial, che dicono: Buttigieg sembra un boomer travestito da millennial, è il tipo di millennial più odioso che c’è. I dati registrano questa insofferenza: Buttigieg va forte nel target over 50, i suoi coetanei gli preferiscono Sanders. Questo disamore sintetizza al meglio la faida che tormenta il Partito democratico e le sinistre occidentali (fermo restando che come non è detto che una donna voti una donna, così non è detto che un giovane voti un giovane): i più giovani considerano Buttigieg “un traditore della sua identità generazionale”, ha scritto Derek Thompson sull’Atlantic, che è ben più radicale e a sinistra rispetto a quella che lui incarna. C’è chi sostiene anche che sia una questione molto più banale e umana: questo bravo ragazzo studioso, calmo, religioso, gay, determinato e rassicurante rappresenta un ideale al tempo stesso irraggiungibile e falso, nella vita vera non ne incontri di uomini così.
I millennial non sono l’unico problema di Buttigieg. C’è il voto afroamericano, come si è scritto spesso, e c’è una recente questione femminile: ieri Politico raccontava della rabbia di molte donne del New Hampshire, per lo più sostenitrici della Warren, che considerano la faccia tosta di Buttigieg come l’ennesima dimostrazione del dominio “del privilegio dell’uomo bianco”. In un momento delicato come questo in Iowa, dicono le signore, ci vuole calma e misura, invece Buttigieg si rivende come vincitore, e l’avrà vinta, perché gli uomini l’hanno sempre vinta. Questa argomentazione non sembra del tutto a fuoco, diciamo, ma racconta l’effetto della Buttigiegmania sugli altri candidati: sembra il candidato studiato a tavolino per rovinare i piani dei più radicali. I sostenitori di Sanders, inviperiti, lo dicono apertamente, e mentre dalle parti di Biden si stringono i denti, Buttigieg e la Smith non raccolgono le provocazioni. Così lei lo manda allo show di Stephen Colbert, lui parla di appartenenza e di un Partito democratico che non sa di fratricidio, ma di accoglienza. Facce toste.