I sindaci delle “città libere” di Visegrád vogliono fondi diretti dall'Ue
Varsavia, Praga, Bratislava e Budapest chiedono il 10 per cento di quel che è destinato ai loro paesi. La burocrazia dice no
Milano. Immaginate una matrioska. La bambola più grande, la prima, è l’Unione europea. Poi si apre e ci si trova dentro la bambola del gruppo di Visegrád, il cuore dell’est europeo coi suoi quattro paesi uniti dal sovran-populismo (con diverse sfumature) e dalla diffidenza verso Bruxelles: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. Lì, nonostante l’arrivo di gran parte dei fondi di coesione, l’Europa va poco di moda. Anzi, viene irrisa e derisa, e non di rado i suoi principi di democrazia e diritto vengono calpestati, in nome della cosiddetta “democrazia illiberarale”. Poi si apre ancora, e dentro la matrioska di Visegrád si trova un’altra bambola: quella delle capitali dei Paesi di Visegrád. Quattro città, Varsavia, Budapest, Praga e Bratislava, in cui il sovran-populismo ha attecchito poco o niente: lì, al contrario, vanno forte le idee di Europa, di integrazione, di libertà, di diritti. I sindaci di queste quattro città sono tutti stati eletti dai partiti di opposizione ai governi centrali, e hanno dato più volte a intendere di preferire Bruxelles ai loro singoli governi.
Per questo, lo scorso dicembre, i sindaci delle quattro capitali, Rafal Trzaskowski (sindaco di Varsavia, eletto con una piattaforma civica pro Ue), Gergely Karácsony (sindaco di Budapest e Verde), Zdeněk Hrib (sindaco di Praga eletto con il Partito Pirata), e Matús Vallo, (sindaco di Bratislava) si sono messi attorno a un tavolo e hanno deciso di mettersi insieme, per creare una rete di “città resistenti”, di enclave europee laddove l’Europa, con tutti i suoi corollari di regole e diritti, viene scacciata. Lo hanno chiamato “patto delle città libere”. “Il populismo non può conquistare le città – aveva raccontato ai giornalisti il sindaco ambientalista e anti Orbán di Budapest – Oggi le quattro capitali formano un’alleanza contro i regimi populisti nazionalisti che soffocano le democrazie della regione. Le città sono un dito nell’occhio del populismo, siamo e resteremo aperte, progressiste, tolleranti e soprattutto europee”.
A questo “patto delle città libere” servono però azioni concrete da contrapporre ai proclami e alla propaganda nazionalista. Servono soldi, insomma, e occorre chiederli a Bruxelles. Per questo mercoledì i sindaci delle “città libere” sono andati a bussare alle porte dell’Europarlamento dove, in queste settimane, è in discussione il bilancio dell’Unione per i prossimi sette anni. Inevitabilmente, il budget prossimo venturo stanzierà ingenti fondi per i quattro paesi di Visegrád che, con buona pace dell’antieuropeismo dei loro governi, sono tra i principali beneficiari dei fondi di coesione. Fondi che, a detta dei sindaci delle città, rischiano di perdersi per strada, tra i mille rivoli delle burocrazie e delle corruzioni locali e che, soprattutto, rischiano per paradosso di finanziare progetti che alimentano, invece di ridurre, il sentimento antieuropeo. Per questo, i quattro, hanno chiesto che il dieci per cento dei fondi stanziati finisca direttamente alle città, scavalcando i governi centrali. “Vogliamo costruire resistenza contro il populismo attraverso soluzioni positive”, hanno detto in conferenza stampa, indicando come azioni positive servizi sociali efficaci, politiche del lavoro puntuali, istruzione di eccellenza, abitazioni popolari disponibili e accoglienti. “Il punto è che se non saremo in grado di risolvere le sfide che le città affrontano al giorno d’oggi, c’è il rischio – ha detto Hrib, sindaco di Praga – che prima o poi arriverà a farlo qualche populista con soluzioni semplici e sbagliate”.
C’è però un problema: non si può fare. Secondo le norme attuali, la distribuzione dei fondi europei tra le regioni si basa sul prodotto interno lordo pro capite e, il pil procapite nelle capitali dell’Europa è significativamente più alto di quello di altre regioni degli stessi paesi. Quindi le capitali non hanno diritto a fondi diretti. Se vorranno continuare a essere “libere”, le città dovranno essere anche creative, altrimenti non se ne fa nulla.