Sanders vs Bloomberg
C’è chi dice: “Non ci resta che Mike”. Lo scontro atomico nella sinistra
Milano. I giornali americani sono pieni dei tormenti più o meno anonimi dell’establishment del Partito democratico americano, che ha riscontrato un inaspettato consenso nelle urne delle primarie per un’offerta moderata e liberale, ma ora non sa dove indirizzare questo consenso. L’establishment vuole fermare Bernie Sanders e la sua deriva radicale a sinistra: puntava sull’ex vicepresidente Joe Biden ma ora non sa più se questa candidatura sia salvabile. Prova a fidarsi di Pete Buttigieg, l’outsider più solido – che sta racimolando endorsement importanti in stati difficilissimi per lui come la Carolina del sud e che è diventato molto operativo negli stati in cui si vota al SuperTuesday – ma non è convintissimo, teme che sia una scommessa azzardata. Che si fa allora? “Non ci resta che Mike Bloomberg” è una frase che si sente dire sempre più spesso, quando a lungo è stata impronunciabile, non soltanto perché l’ex sindaco di New York non è ancora in corsa, ma perché consegnare a un miliardario la salvezza del partito è sempre parso un azzardo inaccettabile. E se non ci fosse altra scelta? Bloomberg ha messo in piedi una campagna elettorale supersonica che ha un vantaggio competitivo incolmabile: non deve chiedere soldi a nessuno. Può telefonare alla Silicon Valley e dire: chiamate i vostri amici più talentuosi e mandateli da me, pago bene. Può arruolare influencer sui social e influencer nella vita reale senza chiedere in cambio nulla, se non sostegno e professionalità: fate bene il vostro lavoro, al resto ci penso io. Ha un potere di spesa illimitato, Bloomberg, dicono che arriverà a stanziare due miliardi di dollari per la campagna, che è soltanto il cinque per cento del suo patrimonio stimato. E questo lo sta rendendo forte, come sa anche Donald Trump che non perde occasione per attaccarlo. Se vogliamo eliminare il pericolo Sanders e spodestare la Casa Bianca, iniziano a pensare i democratici, forse la strada migliore è quella bloombergiana.
L’eventuale scontro Sanders vs Bloomberg sarebbe però quanto di più violento e imbarazzante si possa immaginare per una sinistra che va a caccia non soltanto di una vittoria, ma anche di un’identità. Anche formalmente la stortura è evidente: Sanders non è iscritto al Partito democratico, Bloomberg era un repubblicano diventato indipendente: tecnicamente di democratico non c’è niente, in questo confronto. Sanders continua ad accusare di sabotaggio l’establishment del Partito democratico (se l’è presa anche con i media, trumpianamente), i suoi sostenitori hanno vissuto il caos dell’Iowa come la prova di un complotto ai danni del proprio beniamino, c’è una rivolta in corso contro i “corporate democrats” vicini al business e al centrismo, animata da palazzetti pieni, denuncia di diseguaglianza, desiderio di giustizia sociale. Se l’establishment dovesse infine sposare la candidatura Bloomberg, le primarie diventerebbero uno scontro tra estremi. Da una parte Sanders e il suo radicalismo (persino la sua stella di riferimento, Alexandria Ocasio-Cortez, ha ammesso che il progetto di Medicare for all di Sanders incontrerebbe molte difficoltà al Congresso e avrebbe bisogno di essere un po’ rivisto) e dall’altra Bloomberg, che è soldi, potere, capitalismo, élite, l’un per cento on steroids. E questo scontro avverrebbe dopo anni che la sinistra ha incontrato sempre più difficoltà a parlare di ricchezza, merito, liberalismo e che ha cercato di fare i conti con il suo recente passato liberale nel modo più plateale possibile: negandolo. Qualcuno sostiene che finalmente questa sarebbe la volta buona per risolvere un conflitto che affligge la sinistra da troppi anni. Può essere, ma chissà cosa può restare in piedi, delle idee di sinistra, dopo una resa dei conti così.