Blair e il compleanno del Labour
L’ex premier inglese ha fatto un gran discorso sul futuro della sinistra. Tre strategie e una consapevolezza: dobbiamo voler vincere e governare, non essere trend su Twitter
Pubblichiamo il discorso che l’ex premier britannico Tony Blair ha tenuto ieri al King’s college di Londra in occasione dei 120 anni del Labour. Dopo il suo intervento, Blair ha avuto una conversazione molto interessante: sul sito del Foglio trovate il video completo dell’evento.
Ho pensato molto al fatto di dire qualcosa, di fare il punto, in occasione di questo 120esimo compleanno del Labour inglese: i miei consigli non sono particolarmente apprezzati dal partito di oggi. Poi però mi sono ricordato che ci sono soltanto due persone nate negli ultimi 120 anni che hanno portato il Labour alla vittoria elettorale. E purtroppo Harold Wilson è scomparso da tempo. Gli altri due leader laburisti che hanno vinto un’elezione: Ramsay MacDonald, che era nato nel 1866, e Clement Attlee, nato nel 1883.
In 120 anni di storia, il Labour è stato al potere soltanto trent’anni. Che statistica deprimente. Ora c’è un governo conservatore, un altro, ci sarà per i prossimi cinque anni, e forse dieci. Se così fosse, il Labour sarà stato al potere per un quarto della sua esistenza, anzi di meno. Lo dico in modo schietto: ciò che il Labour ha rappresentato in termini di valori è meraviglioso; i suoi successi, quando è stato al governo, sono enormi; ma come concorrente politico, è stato troppo spesso un fallimento. E’ stato eletto una sola volta per due mandati consecutivi; solo una volta per tre; ed entrambi come New Labour, quella stagione che gran parte del partito di oggi vuole rinnegare.
Come scrive Glen O’Hara nel suo bel pamphlet sulla storia del Labour pubblicato oggi, durante i suoi 120 anni, il Labour ha passato molti anni all’opposizione, ed è stato eletto quasi come uno spasmo necessario per far riprendere respiro ai Tory, prima che l’ordine naturale delle cose si ristabilisse – cioè un governo conservatore. Il Labour ha sempre vinto quando ha conquistato il centro della politica britannica, quando ha affrontato il futuro e quando ha ampliato la sua capacità di attrazione; eppure, nonostante questo sia vero, abbiamo mostrato uno straordinario attaccamento alla volontà di ritirarci in una parte ristretta della sinistra, che ci ha sempre portati a una sconfitta. E poi, una volta sconfitti, diciamo che ascolteremo le persone, e per un breve periodo di tempo lo facciamo pure, prima di decidere che ciò che le persone dicono ci mette a disagio, e così risprofondiamo nella nostra comfort zone solo per infine tornare con lentezza angosciante di nuovo dove avremmo dovuto essere fin dall’inizio.
La nostra ultima sconfitta era prevedibile e prevista. Abbiamo partecipato a un’elezione con un leader con una popolarità al di sotto del 40 per cento, su un terreno politico scelto dai nostri avversari, con un manifesto che prometteva la Terra ma proveniente da un pianeta diverso dalla Terra e una campagna che ha sostituto la professionalità con credenze narcisistiche.
Così eccoci qui, dove eravamo prima. E la volta prima. E la volta prima ancora. La gente sta guardando la corsa per la nuova leadership del Labour. So che non è una grande novità. Le novità appartengono al governo. Perché i governi fanno cose. Mentre l’opposizione dice cose. Ma la gente ha mezzo orecchio in ascolto. Cerca di capire se questa volta ce la facciamo, a capire. E si augura pure un nostro successo, un’alternativa forte: lo sanno tutti che il Regno Unito ha bisogno di un’opposizione.
So che quando corri per la leadership del tuo partito, parli ai tuoi attivisti, entusiasmi la base, cerchi l’equilibrio perfetto tra il confronto e la consolazione. Ma siamo in crisi. E siamo in crisi in un momento in cui i progressisti sono in crisi praticamente ovunque. Nei paesi con più di 20 milioni di abitanti, non c’è un partito occidentale della sinistra tradizionale al potere, e pure le coalizioni sono pochine. I progressisti rischiano di rinchiudersi dentro a quattro muri di impotenza: uno stile vecchio, il mantra tasse e spese, il potere dello stato in economia; una politica estera che possiamo tranquillamente definire anti occidentale; l’abbraccio alla politica dell’“identità”; la denuncia pubblica di chiunque abbia idee discordanti. Il primo muro fraintende le lezioni della crisi finanziaria, il secondo quelle dell’11 settembre; il terzo ci vede entrare in una guerra culturale che siamo assolutamente certi di perdere; e il quarto ci incoraggia a emulare i populisti di destra quando la nostra migliore arma contro di loro è quella di essere la voce della ragione e dei fatti.
Il Labour è di fronte a sfide che riguardano la sua stessa storia, amplificate dalle sfide contemporanee della sua famiglia globale. Ma io in tutta onestà non vedo alcuna via per il futuro se non quella di una ricostruzione dalle fondamenta.
Potremmo discutere una miriade di politiche dettagliate su assistenza sociale, infrastrutture, disuguaglianza, criminalità, istruzione, salute; nord contro sud e periferie contro città; nuove tecniche di campagna elettorale e social media. Queste cose sono molto importanti. Ma ci sono tre sfide strategiche all’interno delle quali devono essere trovate le risposte.
La prima. Dobbiamo costruire una nuova coalizione progressista, per mettere in pratica i valori del Labour. Dobbiamo correggere il difetto alla nascita, che separava la tradizione del riformismo liberale di Lloyd George, William Beveridge da quelle laburiste di Keir Hardie, Clement Attlee, Ernest Bevin e Aneurin Bevan. Queste tradizioni sono state separate da convinzioni riguardo alle classi sociali, all’organizzazione industriale, al ruolo dello stato e alla libertà individuale – cose che erano legate a quello specifico tempo; ma avevano in comune la riforma sociale, le opportunità, l’impegno appassionato nella lotta alla povertà e all’ingiustizia – cose che sono senza tempo. Il modo in cui ciò può avvenire a livello istituzionale è oggetto di dibattito. Ma dal punto di vista intellettuale e filosofico questa questione è essenziale. Con una specificazione. Quei politici liberali aspiravano a governare. I Lib-dem oggi dovrebbero avere lo stesso scopo chiaro. E ricordiamoci che ci sono molti progressisti oggi che non si sentono a casa in nessuno dei due partiti politici, né tra i laburisti né tra i liberaldemocratici.
Secondo. Se il Labour diventa più moderato e meno estremo, ovviamente andrà meglio. Ma non tantissimo. Il problema è che abbiamo definito le politiche radicali sulla base di un’agenda politica che è irrimediabilmente obsoleta, e la politica “moderata” ne è soltanto una versione più mitigata. Dobbiamo ridefinire il significato di “radicale”. Stiamo vivendo una rivoluzione tecnologica che è l’equivalente del XXI secolo della Rivoluzione industriale del XIX secolo. Cambierà tutto e quindi tutto dovrebbe cambiare, incluso un riorientamento radicale del governo. Questo è il contesto in cui affrontiamo le disuguaglianze, promuoviamo la giustizia sociale e ridistribuiamo il potere. Ed è il contesto per un’azione urgente sul cambiamento climatico. La questione ambientale non è più una “single issue”: è un nuovo approccio alla politica nella sua totalità. Ma ha bisogno di una riprogettazione della società e dell’economia che non può essere lasciata alla politica della protesta di piazza. Il mercato dell’Old Labour non sta tornando. Le soluzioni tradizionali non cureranno le disparità tra le regioni, la bassa produttività, i salari stagnanti, le ansie delle comunità e delle persone che si sentono trascurate. Abbiamo bisogno di immaginare di nuovo l’economia moderna. Ma una sinistra alla vecchia maniera in un mondo tutto nuovo non sarà considerata credibile.
Ed eccoci al terzo punto. Le idee giuste, in politica, non funzionano mai senza la mentalità giusta. Intendo la mentalità di governare. Il Labour non è una ong o un movimento. Il suo obiettivo non è quello di fare tendenza su Twitter, o di avere celebrities che (temporaneamente) lo elogiano, o di bearsi in una bolla d’adulazione che scoppia alla prima decisione difficile da prendere. Il nostro compito è quello di vincere, di mettere le mani nel fango del governare, e di tirare fuori da quel fango il progresso, misurato non con belle parole dette a distanza, ma con cambiamenti veri e radicati nel benessere delle persone – alcuni ci ringrazieranno, molti non sapranno nemmeno che i benefici ottenuti sono il frutto della nostra lotta per porre l’autodisciplina prima dell’autoindulgenza. La nostra missione è di prendere le nostre lotte e metterle in pratica; di dire sì all’ambizione e no all’ambizione eccessiva o ai modi sbagliati per realizzarla.
La nostra missione è andare dove sono le persone e mostrare loro come, insieme, possiamo fare meglio. Dobbiamo radicare le nostre azioni nella loro realtà. Dobbiamo allineare i loro valori con i nostri. Sono cambiamenti profondi nella filosofia, nella politica e nella pratica. Questa è la dimensione della nostra rifondazione. Quel che renderà i prossimi 120 anni diversi dai primi. Questa è la grande sfida: una montagna da scalare ben più alta della scelta del prossimo leader. Quindi, alla fine ho fatto il punto.
La conclusione dopo l’ennesima sconfitta, a 120 anni dalla nostra nascita, non è un “ritorno” a niente. Il 2020 non è il 1997 e nemmeno il 2007. E nel 2030 ci sarà una rivoluzione diversa da quella del 2020. Ogni cosa riguarda sempre e soltanto il futuro. Esattamente per questo motivo, nonostante puntassimo ad andare avanti, in realtà abbiamo sempre viaggiato all’indietro. Solo una rinascita, un rinnovamento dalla testa ai piedi, potrà portarci nel futuro.