Facciamoci del male
Lo stile autolesionista delle primarie americane dei dem e le analogie con il Gop distrutto da Trump
Roma. Nel classico saggio The Paranoid Style in American Politics, del 1964, Richard Hofstadter sosteneva che la politica americana è segnata da un’ossessione paranoica, generata dalla presenza costante, implacabile, di uno spaventoso nemico esterno sul quale la classe politica scarica le colpe e costruisce il consenso. Il nemico era il comunismo, ma prima ancora erano stati i massoni, gli anti massoni, i gesuiti, i cattolici in generale, i monarchici, gli schiavisti del sud, gli immigrati, gli illuminati e altri non meglio specificati poteri occulti la cui presunta esistenza ha determinato e alimentato l’arciamericana inclinazione verso le teorie del complotto.
Lo “stile autolesionista” della politica americana è il corollario contemporaneo dell’elemento paranoico, e le primarie democratiche, che sono entrate nella fase incandescente, sono un saggio in continuo aggiornamento sulle pulsioni autodistruttive della dialettica politica. Il nemico esterno al perimetro democratico, pur facilmente identificabile, è sostituito dal nemico interno, fatto strutturale e anche salutare nella fase in cui un partito compete per la selezione del candidato, ma gli sfidanti sembrano mettere un decisivo surplus di acrimonia nel colpire i propri simili all’interno dello schema delle correnti.
Il principio “facciamoci del male” mette i moderati contro i moderati e i radicali contro i radicali. L’unica convergenza nel dibattito di Las Vegas si è manifestata nell’attacco a Mike Bloomberg, che era al suo primo confronto televisivo e che più in generale offre parecchi elementi su cui aggredire: i suoi miliardi, il suo record non proprio immacolato come sindaco di New York, i patteggiamenti riservati con donne che hanno sollevato certi suoi comportamenti inappropriati, le accuse di sessismo su cui ha insistito in particolare Elizabeth Warren, che si sta battendo per la sopravvivenza politica. Bloomberg è arrivato al dibattito televisivo facendo strategicamente circolare un memo che tendeva a dimostrare, conteggi dei delegati alla mano, che se nessuno dei candidati si farà da parte, dopo il SuperTuesday del 3 marzo Bernie Sanders avrà un vantaggio incolmabile. Il ragionamento nemmeno troppo implicito era questo: per raggiungere l’obiettivo finale, battere Donald Trump a novembre, e non lasciare il Partito democratico nelle mani di un neosocialista del Vermont, qualcuno al centro fra Joe Biden, Pete Buttigieg e Amy Klobuchar deve lasciare il campo a me, l’unico con la stoffa e il portafogli per mettere insieme una coalizione moderata vincente. Gli interessati hanno risposto martellandolo senza pietà in diretta televisiva.
Accanimento su Bloomberg a parte, la pulsione autolesionista si è mostrata nel fatto che lo scambio più nervoso e biliare è stato fra Buttigieg e Klobuchar, con la senatrice che ha chiesto al sindaco “stai dicendo che sono scema?” e ha concluso l’alterco con sarcasmo: “Mi piacerebbe che tutti fossero perfetti come te, Pete”. Paradossalmente, quello che sulla carta è al momento il frontrunner, Sanders, non è stato il più attaccato nel confronto televisivo. Dove abbiamo già visto in azione una simile foga fratricida? Nel Partito repubblicano, naturalmente. Quattro anni fa il Grand Old Party è stato preso in ostaggio da Donald Trump e infine trasformato in una corte ossequiosa dedita al culto della personalità del capo, con i dissidenti sistematicamente ridicolizzati e messi ai margini (il Trump post impeachment è poi un inquietante caso di studio sulle purghe degli oppositori interni). Quattro anni fa l’outsider ha sfruttato impulsi autolesionisti preesistenti, che già da tempo avevano fiaccato quello che un tempo era noto come il partito più disciplinato e rigoroso nello schema bipolare americano.
Le primarie repubblicane del 2016 hanno segnato la fine di un partito in cui il fronte moderato dei vari Marco Rubio e Jeb Bush si è distrutto da sé, aprendo la strada a Trump. Basta ricordare che uno degli snodi chiave di quell’epopea amarissima per il partito è stato il “suicidio-omicidio” di Chris Christie, che in un dibattito si è immolato, ma non senza portare con sé nel baratro anche Rubio. Credeva forse di ottenere qualcosa in cambio da Trump, una volta eletto, ma si sbagliava di grosso. Quelle primarie, apoteosi dell’autolesionismo, non hanno appena designato un vincitore – che è lo scopo delle primarie – ma hanno seppellito un intero partito, e i pochissimi sopravvissuti sono stati presto messi di fronte a una scelta: prestare fedeltà alla satrapia egolatrica del capo, oppure scomparire. Anche se il Partito democratico non ha candidati in grado di rivaleggiare con il grottesco autoritarismo di Trump, è esposto a una tentazione analoga: cedere alla pulsione autolesionista, aggiornamento contemporaneo dello stile paranoico della politica americana.