Modelli di contenimento a confronto. Corea del sud e Giappone contro il “lockdown”
Informare i cittadini, fornire strumenti adeguati, e poi lasciare la libertà di movimento serve a non terrorizzare le persone e a rendere sostenibili anche i costi di questa catastrofe
Roma. E’ uno scontro tra modelli emergenziali. I primi quattro paesi per numero di contagi da covid-19 sono Cina, Corea del sud, Giappone e Italia. La Cina, per contenere il contagio, ha usato il modello che gli è più affine, cioè quello dell’autoritarismo, limitando le libertà personali per milioni di persone. Città bloccate, isolamento del trasporto pubblico, sospensione delle attività lavorative, quarantena forzata sono le norme applicate dal governo di Pechino prima a Wuhan, l’epicentro dell’epidemia, il 23 gennaio scorso, e poi all’intera provincia dello Hubei e ad altre metropoli con casi accertati o sospetti di Covid-19. Corea del sud e Giappone hanno scelto un’altra via, quella del “contenimento” libero. L’Italia, con l’isolamento progressivo di undici comuni dal 22 febbraio in poi, approvato da un decreto votato ieri dal Parlamento, si posiziona in una via di mezzo.
Corea del sud e Giappone, i due paesi più vicini, per tradizione e geografia, alla Cina, e allo stesso tempo vicini anche ai valori fondamentali delle democrazie occidentali, da quando è scoppiata l’epidemia hanno cercato in ogni modo di evitare l’isolamento forzato. Il governo di Tokyo è stato il primo a subìre le critiche della gestione della nave da crociera Princess Diamond, lasciata in quarantena sin dal 3 febbraio al porto di Yokohama. A bordo però il virus si è diffuso lo stesso, contagiando almeno 691 persone su 3,700 passeggeri. I contagi sulla terraferma riguardano almeno 171 persone, ma non hanno portato il governo giapponese a introdurre misure restrittive. Nell’Hokkaido, la prefettura più a nord del Giappone, l’esecutivo locale ha confermato 39 casi: soltanto ieri è stata chiesta la chiusura delle scuole elementari e medie – con supporto però di alternative adeguate come i centri diurni – a scopo precauzionale. Le scuole superiori e le università sono esentate dalla chiusura perché “gli studenti sono considerati grandi abbastanza da restare a casa in caso di sintomi”, scriveva ieri l’agenzia Kyodo. Altre misure del governo riguardano il divieto di ingresso per le persone che arrivano dalla sola provincia dello Hubei, la raccomandazione per le aziende di promuovere il telelavoro, l’uso dei mezzi pubblici scaglionato per evitare gli orari di punta, e lascia agli organizzatori dei grandi eventi pubblici la decisione di postporre o cancellare. E il Giappone, visti i Giochi olimpici che dovrebbero partire a luglio, avrebbe tutto l’interesse di velocizzare il contenimento dell’epidemia.
In Corea del sud la situazione non è molto diversa: nel centro dell’epidemia cioè la città di Daegu – quasi tre milioni e mezzo di abitanti – e le aree circostanti, il governo di Seul si è guardato bene dall’usare l’espressione “lockdown”, nonostante i contagi coinvolgano ormai oltre mille persone. Ci si prepara ad applicare “il massimo degli sforzi” per la quarantena, “ma non significa un blocco della regione”, ha detto il portavoce del Partito democratico al governo. Anzi, ha aggiunto, Daegu non sarà come Wuhan, ma verranno selezionate “zone di controllo speciale”. “Molti ristoranti e bar a Daegu sono aperti, in attesa di clienti che però arrivano raramente”, ha scritto sul New York Times Choe Sang-Hun. “Un ristorante ha appeso il cartello: ‘Per favore, entra! Disinfettiamo accuratamente questo posto due volte al giorno’”. Nonostante le persone preferiscano evitare i luoghi pubblici e affollati, il modello a cui si ispira il governo sudcoreano è quello dell’apertura: “Se dovesse funzionare, questa strategia – cioè monitorare costantemente i nuovi contagi lasciando però la città in attività – potrebbe essere un modello per le società più democratiche nel momento in cui il virus si diffonde nel mondo e mette alla prova le libertà civili”.
C’è una differenza culturale fondamentale tra paesi asiatici come Corea e Giappone e l’Italia. Lì le epidemie – magari non su questa scala – sono un problema già vissuto. E la tradizione, la cultura sociale impone che la responsabilità nei confronti della collettività sia messa davanti a ogni necessità personale. Ma c’è anche una questione di fiducia dimostrata dai governi centrali e democratici: informare i cittadini, fornire strumenti adeguati, e poi lasciare la libertà di movimento. Serve a non terrorizzare le persone e a rendere sostenibili anche i costi di questa catastrofe: una città che continua a funzionare è una città che produce. Ma il controllo c’è, e riguarda anche la messa in sicurezza degli ospedali. Non solo: secondo i decreti approvati ieri dal Parlamento di Seul, per esempio, chi è sospettato di avere il virus e si rifiuta di fare il test può incorrere in una multa, e la pena per chi non fa la quarantena, quando disposta dal medico, va dalla multa fino a un anno di prigione. Soprattutto per una democrazia relativamente giovane come quella sudcoreana, la libertà personale è un valore non negoziabile, neanche di fronte all’emergenza. Resta da capire se questo modello funzionerà davvero.
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