Milano. Il Partito democratico americano andava in cerca di un’unità, di un sarto che sapesse rimettere insieme scampoli e stracci di un’identità tormentata creando un abito presentabile in società, e nella notte del SuperTuesday lo ha intravisto in Joe Biden. L’ex vicepresidente della stagione obamiana ha vinto le primarie in dieci dei quattordici stati al voto, compresi il Texas e la Virginia, conferme rassicuranti oltre che ricche di delegati. Bernie Sanders non è sconfitto, ha il tesoretto ambitissimo della California e la tenacia di un candidato che cerca il riscatto dal 2016, ma gli elettori democratici stanno dando un segnale sempre più preciso: Sanders non ci convince. Quando e dove vince, il senatore del Vermont non raccoglie il consenso del 2016 (esempio, il suo Vermont: 51 per cento oggi, 86 nel 2016), come se scontasse tutto il peso del “candidato inevitabile”, e soprattutto non riesce a creare la mobilitazione necessaria per allargare la base democratica, e riprendersi poi a novembre gli infatuati di Trump del 2016. I sandersiani, agguerritissimi e arrabbiatissimi, dicono che si sta ricostituendo il veto dell’establishment democratico, il “no Sanders” del 2016, il muro dei potenti contro il fascino dell’outsider: con tutta probabilità i prossimi appuntamenti elettorali saranno dominati da questo furore vittimistico, cui molti sono parecchio sensibili. Ma nei numeri si scorge che lo slancio di Sanders è ridimensionato: non si sa né di quanto né per quanto, e resta il timore di un logoramento fino all’estate.
Abbonati per continuare a leggere
Sei già abbonato? Accedi Resta informato ovunque ti trovi grazie alla nostra offerta digitale
Le inchieste, gli editoriali, le newsletter. I grandi temi di attualità sui dispositivi che preferisci, approfondimenti quotidiani dall’Italia e dal Mondo
Il foglio web a € 8,00 per un mese Scopri tutte le soluzioni
OPPURE