Hillary, Elizabeth e le altre
La Warren si ritira dalle primarie democratiche mentre esce il documentario sulla Clinton. Riflessioni davanti alla tv, tra i post it degli studenti e l’incapacità di essere competenti e umane in pubblico
Il giorno dopo l’annuncio del suo ritiro dalle primarie del partito democratico, gli studenti di legge di Harvard lasciavano una serie di messaggi vicino alla fotografia di Elizabeth Warren appesa nel corridoio della scuola dove è stata stimata professoressa negli Anni 90, una sorta di tributo spontaneo per l’ultima candidata donna rimasta fino a quel momento in gara (se si esclude Tulsi Gabbard, tecnicamente ancora dentro).
Uno dei messaggi diceva “non ti meritiamo ma continueremo a lottare finché non diventeremo degno di farlo”. Un altro diceva “sei meglio di tutti questi stronzi”. Un altro ancora “continua a persistere”. Un altro, semplicemente, “grazie”. Alcuni avevano firme femminili, altri nomi maschili. Dopo poche ore su Twitter compariva l’hashtag #ThankyouElizabeth. Nello stesso momento venivano pubblicati decine di editoriali, tutti più o meno dello stesso tono: una sconfitta del femminismo, visto che per sperare in un’altra donna presidente bisognerà aspettare altri quattro anni. Che è un dato di fatto, per carità, ma come lo sono i numeri: Elizabeth Warren non ha vinto perché non l’hanno votata.
Certo, quando il candidato è una donna ci sono sempre fattori “altri”, c’è il doppio standard e c’è sicuramente del sessismo strisciante (ai reporter che mercoledì l’aspettavano sotto casa Warren stessa a specifica domanda ha risposto: “Se dici che è colpa del sessismo ti dicono che sei una lagna, se dici che il sessismo non c’entra ti dicono ma su che pianeta vivi”), ma c’è anche che Warren è stata una candidata che ha portato avanti una campagna confusa e piena di problemi, senza trovare mai una collocazione precisa tra i moderati e i progressisti, con un messaggio ripetitivo che alla fine non ha entusiasmato nessuno.
Tutte analisi che nella valanga di affetto post abbandono sono scomparse lasciando posto a un sentimento acritico che sa tanto di senso di colpa. Femminismo a scoppio ritardato si potrebbe chiamare: accorgersi della validità delle candidate donne quando ormai è troppo tardi e quando, per compensare, si è costretti all’altarino emotivo e agiografico. Ci pensavo ieri guardando Hillary, documentario in quattro parti diretto da Nanette Burstein. Presentato al Sundance a gennaio, quando in corsa per la presidenza c’erano ben cinque donne – oltre a Warren e Gabbard anche Kamala Harris, Kirsten Gilibrand, Marianne Williamson - visto adesso rischia di diventare ancora più rilevante di un certo modo di trattare le donne in politica, certo, ma anche del funzionamento schizofrenico della società americana, alternativamente impegnata a dipingere Clinton alternativamente come una campionessa del femminismo e un mostro.
Come dice a un certo punto la sua consulente per i media Mandy Grunwald “l’attitudine dell’America verso Hillary Clinton è del tipo “be our champion, go away”. Duemila ore di girato della campagna presidenziale, interviste alle amiche d’infanzia, ai suoi collaboratori, filmati d’archivio della sua vita da First Lady e anche prima, quando era avvocato in Arkansas, interviste a Bill Clinton, a Obama e a Chelsea, Hillary è un ritratto profondo e umanissimo che rivela la donna che nessuno ha visto, di certo non durante la campagna: divertente, spiritosa e calda, l’opposto del robot di ghiaccio a cui ci eravamo abituati. Esattamente come era successo un mese fa quando era andata ospite nella trasmissione radiofonica di Howard Stern, risultando spassosa come non mai mentre raccontava del giorno dell’inaugurazione di Trump, la Hillary del documentario è un essere umano assai più complesso e piacevole. La vera sconfitta, casomai, è che in quattro anni nulla è cambiato. Tra quattro anni, quando uscirà il documentario su Warren e la scopriremo molto meglio di come ce la ricordavamo ci chiederemo, esattamente come oggi celo chiediamo con Hillary: chissà cosa sarebbe successo se in campagna elettorale avesse fatto vedere la vera se stessa.