La guerra della Cina contro il virus e la verità
Laboratori chiusi, medici silenziati, professori arrestati, social network censurati e attacchi ai “nemici del popolo”. Così il Partito comunista ha messo in pericolo la salute internazionale e ora usa l’epidemia per fare propaganda
Duemilaventi. La Cina combatte il Coronavirus”. E’ il titolo del libro appena pubblicato dal Partito comunista cinese per celebrare la vittoria sull’epidemia e su come “il compagno Xi Jinping si è preso cura del popolo”. Fa parte della sua impressionante macchina della propaganda. Il ministero degli Affari esteri cinese in conferenza stampa intanto dichiarava che è una diffamazione parlare di “virus cinese” e che la sua origine è “ignota”. Origine ignota… Il regime ha arruolato anche il dottor Zhong Nanshan, l’epidemiologo che ha scoperto la Sars: “Sebbene Covid-19 sia stato scoperto per la prima volta in Cina, ciò non significa che provenga dalla Cina”, ha detto anche lui in conferenza stampa. “Questa è una malattia umana, non una malattia nazionale”. Chen Wei è una epidemiologa di fama mondiale e un generale dell’esercito popolare di liberazione cinese. Era in prima linea contro Ebola e Sars e da metà gennaio è nell’epicentro dell’epidemia di coronavirus a Wuhan. Insieme a sei membri della sua squadra, Wei ha dimostrato la propria lealtà al Partito comunista iniettandosi un vaccino che non è stato nemmeno testato sugli animali, nel tentativo evidente di dimostrare quanto bene la Cina stia combattendo il coronavirus. Il canale ufficiale Weibo dell’esercito ha condiviso le immagini di Wei a cui è stato iniettato il vaccino nel braccio sinistro. Da allora il post di Weibo è stato eliminato, ma le immagini e uno screenshot del post sono stati condivisi sulle piattaforme social. Dopo aver soppresso la verità sul Covid-19, la Cina sta imponendo la sua di verità.
Trasparenza? Pochi giorni prima, il regime cinese ha chiuso il laboratorio che aveva condiviso la sequenza genomica del virus con il resto del mondo
Il 29 gennaio, mentre un giornalista italiano mangiava involtini cinesi in diretta tv, Daniel Henninger sul Wall Street Journal scriveva: “La Cina sta danneggiando il resto del mondo, per incidente o per volontà”. E se Paul Wolfowitz spiegava che “la censura cinese sta aiutando a diffondere il virus”, lo storico Victor Davis Hanson aggiungeva: “Il regime comunista cinese è una minaccia esistenziale non solo per il suo miliardo di cittadini, ma per il mondo”. Che il coronavirus non fosse un raffreddore era abbastanza chiaro: è un patogeno che in Italia uccide a un tasso di circa il quattro per cento (alla faccia dell’“influenza”), dalla fortissima capacità di contagio, che ha il potenziale di stendere i sistemi sanitari avanzati, per il quale non abbiamo farmaci ma usiamo quelli sperimentati contro Ebola, Hiv e malaria e che per contenerlo richiede “mezzi medievali” (leggi quarantena), come ha detto al Financial Times il microbiologo che ha scoperto Ebola, Peter Piot. Abbiamo politicizzato anche una pandemia per interessi di bottega partitica, ma abbiamo ignorato la grande questione politica: il clamoroso livello di compromissione e di censura del regime cinese sul coronavirus. Ci siamo persi dietro le teorie del complotto sull’origine in laboratorio a Wuhan, abbiamo attaccato la “fake-pandemic”, ma non abbiamo considerato il vero complotto, quello della Cina contro la verità. Forse perché ci siamo legati mani e piedi a Pechino?
Al regime all’inizio non interessava fermare il virus, ma salvare se stesso. In occidente, dai media all’Oms, abbiamo persino ammirato l’efficienza cinese, “hanno costruito un ospedale in tre giorni, ulalà”, senza pensare al danno causato dalla censura. Ci hanno creduto tutti. “Ho parlato con il presidente Xi”, ha detto Donald Trump, “e stanno lavorando molto, molto duramente, e penso che funzionerà tutto bene”. He Weifang, un famoso giurista cinese, ha detto in un post su WeChat che “la mancanza di libertà di espressione ha aiutato la diffusione del virus”. Le restrizioni al libero flusso di informazioni hanno amplificato la crisi. Weinfang ha perso la cattedra universitaria per aver sostenuto il noto dissidente, scrittore e premio Nobel per la pace Liu Xiaobo, morto di cancro in prigione. Nell’ultima settimana sono emersi molti pezzi di questo puzzle. Metterli insieme non è difficile. Il 19 gennaio, mentre il virus stava già uccidendo, funzionari di tutta la provincia di Hubei hanno organizzato un banchetto per decine di migliaia di famiglie a Wuhan nell’ambito delle celebrazioni ufficiali per il nuovo anno. Il Partito comunista, intanto, era impegnato a reprimere dissenso e verità. “Abbiamo accolto con favore la leadership e l’impegno politico dei più alti livelli del governo cinese, il loro impegno per la trasparenza e gli sforzi compiuti per indagare e contenere l’attuale focolaio”, ha annunciato l’Organizzazione mondiale della sanità il 30 gennaio. Trasparenza?
“Per mantenere la propria autorità, il Partito comunista cinese deve far credere al pubblico che tutto procede secondo i piani” ha spiegato Minxin Pei, professore al Claremont McKenna e fellow al German Marshall Fund. “Ciò significa realizzare sistematicamente insabbiamenti di scandali e carenze che potrebbero riflettersi negativamente sulla leadership del Partito comunista. La sopravvivenza dello stato monopartitico dipende dal segreto, dalla soppressione dei media e dai vincoli alle libertà civili. La Cina continuerà a minare la propria sicurezza - e quella del mondo -, al fine di rafforzare l’autorità del Partito, responsabile di questa calamità”.
I laboratori cinesi avevano identificato il coronavirus già a dicembre, ma gli è stato ordinato di interrompere i test, distruggere i campioni e chiudere la bocca. Solo tre settimane dopo la Cina avrebbe ammesso il contagio. Caixin Global ha rivelato che società di genomica hanno sequenziato il virus da campioni di pazienti che si erano ammalati a Wuhan. I risultati sono stati mandati a Pechino. Il 3 gennaio, la Commissione medica nazionale ha ordinato di nascondere la storia. Quattro giorni prima Xi Jinping, “presidente per l’eternità”, aveva annunciato trionfalmente un nuovo anno di “importanza fondamentale per la realizzazione del primo obiettivo centenario”. La guerra cinese alla verità doveva procedere spedita. Dominic Meagher, presidente del gruppo di analisi Australasia, ha spiegato al Lowy Institute che “disonestà ufficiale e cronica mancanza di trasparenza si sono aggiunte al problema”. Il l 4 agosto 1958 Mao Zedong annunciò che la produzione alimentare era strabiliante e disse alla popolazione di consumare pure “cinque pasti al giorno”. Furono presi accordi di esportazione per tonnellate di cibo in cambio di macchinari e valuta. Pochi mesi dopo iniziò la più grande carestia della storia, in cui decine di milioni di cinesi sarebbero morti (non abbiamo mai saputo quanti) perché, in realtà, non vi era alcun surplus. Il “Grande balzo in avanti” aveva decimato la produzione.
Il laboratorio dello Shanghai Health Center è stato chiuso il 12 gennaio, un giorno dopo che il team del professor Zhang Yongzhen ha rivelato la sequenza del virus su piattaforme mediche online. Il loro “crimine”? Aver diffuso la sequenza prima delle autorità cinesi. Zeng Yingchun e Zhen Yan, due infermiere di Wuhan, epicentro del coronavirus, dieci giorni fa avevano scritto una lettera drammatica per la famosa rivista medica The Lancet, in cui chiedevano aiuto alla comunità internazionale. “Le condizioni qui a Wuhan sono più difficili ed estreme di quanto avremmo mai potuto immaginare”, hanno scritto. “Vi è una grave carenza di dispositivi di protezione, come respiratori, mascherine, occhiali, tute e guanti”. Il giorno dopo, le due infermiere hanno chiesto al giornale scientifico di ritirare l’articolo. L’articolo non deve essere piaciuto a Xi, impegnato a spiegarci come a Wuhan ora vada tutto bene. Il gruppo di ricerca di Toronto Citizen Lab ha scoperto che il colosso social WeChat ha bloccato combinazioni di parole chiave sul virus già a dicembre. WeChat, di proprietà della società cinese Tencent e “l’equivalente cinese di WhatsApp, Facebook, Apple Pay e altre applicazione riunite in una”, ha cancellato espressioni come “polmonite sconosciuta a Wuhan” e “scoppio della Sars a Wuhan”. “I social media sono stati sotto la pressione del governo per censurare le informazioni nelle prime fasi dell’epidemia”, afferma il rapporto citato da Reuters. “Ciò che rende unico questo caso è il potenziale danno alla salute che potrebbe aver arrecato il blocco di queste informazioni”. Il regime cinese ha arrestato Li Wenliang, il medico che ha cercato di lanciare il primo avvertimento sull’epidemia e che poi lo avrebbe ucciso. Cosa avrebbe potuto raccontare? Da quanto si sapeva del virus? “Se i funzionari avessero divulgato prima le informazioni sull’epidemia”, ha detto il dottor Li al New York Times prima di morire, “penso che sarebbe stato molto meglio”. “1984” di George Orwell sarà anche bandito in Cina, ma prima lo hanno messo in pratica. La scorsa settimana è morto un altro medico a Wuhan, il dottor Zhong Jinxing. Il regime dice “per troppo lavoro”, non per il virus (il famoso “raffreddore” di Andropov?). Ogni caduto in questa battaglia è arruolato alla causa dell’“armonia” di Xi. La Cina ha espulso dal paese tre giornalisti del Wall Street Journal dopo che avevano pubblicato un editoriale sui rischi che il sistema cinese poneva al mondo. Poi ci sono molti casi di giornalisti e attivisti cinesi che hanno detto la verità e che sono stati arrestati o che sono “spariti” (la Cina è 177esima su 180 paesi al mondo nella libertà di parola secondo Reporter senza frontiere). Due giornalisti di Wuhan, Fang Bin e Chen Qiushi, sono scomparsi nella “quarantena”. Anche il professore di legge Xu Zhangrun, che in un saggio aveva criticato Xi sulla crisi del coronavirus, è agli arresti domiciliari con il pretesto della quarantena. E l’attivista e studioso di diritto Xu Zhiyong, che ha criticato Xi per aver censurato l’epidemia, è stato arrestato. “Questo forse è l’ultimo pezzo che scrivo”, spiegava il professor Zhangrun. “Posso prevedere con troppa facilità che sarò sottoposto a nuove punizioni. Lasciate che le vostre vite brucino con una fiamma di decenza; sfondate l’oscurità che si diffonde e date il benvenuto all’alba”. La Cina ha usato il proprio apparato totalitario per nascondere il contagio e poi per stroncare l’epidemia e rafforzare il potere. E la dittatura, anziché indebolita, rischia di uscirne persino rafforzata. Nel 1974, prima della fine della Rivoluzione Culturale, il cardinale Joseph Zen, molto critico oggi dell’accordo fra Vaticano e Cina, era riuscito a tornare a casa per visitare i parenti che non incontrava da 26 anni: “Ho visto cose inimmaginabili! L’intero paese era diventato un campo di concentramento! Le religioni erano scomparse, le chiese chiuse o trasformate in fabbriche, la chiesetta della mia parrocchia era diventata il ‘negozio del popolo’, dove si vendevano generi alimentari. Oggi sono pochi i concetti marxisti rimasti in questo paese comunista: sopravvivono solo ateismo, persecuzione e dittatura”.
Stiamo parlando di un regime che non ha riguardo per la vita umana, che espianta organi ai condannati a morte quando sono ancora vivi, che ha eseguito aborti forzati nel suo controllo distopico e terrificante della popolazione e che tiene otto milioni di persone in quelli che chiama “campi di rieducazione”. Perché i paesi occidentali non lo hanno mai inchiodato alle sue responsabilità e ai suoi crimini? E’ denuncia di questi giorni che la Cina ha spedito i detenuti di quei campi a lavorare come schiavi nelle fabbriche dove si preparano i brand occidentali che finiscono nelle nostre case. Sui social sono emerse immagini inquietanti che mostrano persone picchiate dalla polizia per non aver indossato le mascherine. E poi agenti che installano barre o catene di metallo fuori dalle case per impedire agli abitanti di uscire. “Una maschera chirurgica o un tubo respiratorio? La tua scelta”, recita uno striscione nelle strade. “Chi non denuncia la febbre è un nemico di classe”. Medici e infermiere piangono mentre sono rasate in un video ufficiale, prima di essere inviate a Wuhan. Fanno il saluto del Partito comunista. I propagandisti cinesi speravano che il video suscitasse sentimenti di patriottismo e abnegazione. “Smettete di usare i corpi delle donne come strumenti di propaganda”, si legge sul social WeChat, prima di essere censurato. La televisione di stato ha perfino mostrato un’infermiera di Wuhan al lavoro nonostante fosse incinta di nove mesi. Poi l’esaltazione di un’altra donna al lavoro “dieci giorni dopo un aborto”.
Si ripete con la Cina l’errore commesso con l’Urss: fidarsi di una dittatura disposta a lasciar dilagare una epidemia nel tentativo di non arrecare danno al regime
La lotta al virus è diventata una capillare campagna di propaganda del regime. E’ ormai un segreto di pulcinella che in Cina il numero di contagi e di vittime sia molto superiore a quello riferito da Pechino, così come in Iran i numeri siano ben altri di quelli della Repubblica Islamica, i cui ufficiali si stanno ammalando uno dopo l’altro (il dieci per cento dei parlamentari iraniani ha il coronavirus). Le dittature in casi di epidemie e disastri hanno bisogno di lacché, sicofanti e censori. Una epidemia ha bisogno del contrario. Il regime di Xi aveva già celato l’epidemia di peste suina nel 2018 e che avrebbe ucciso quasi un quarto dei maiali del mondo, fatto aumentare i prezzi della carne a livello globale e portato l’inflazione alimentare a un massimo di otto anni. Il primo caso in Cina è stato scoperto il 1 agosto 2018, in una fattoria vicino a Shenyang, nella provincia nord-orientale. Pechino ha impiegato due settimane per bloccare le esportazioni di suini da tutta la regione. I cinesi amano la carne di maiale fresca, direttamente dal macello, e centinaia di migliaia di suini vivi vengono spostati su lunghe distanze ogni giorno per rifornire le città. Quel movimento di massa diffonde la malattia. Il maiale è un alimento base della cucina cinese e l’aumento della produzione di carne è stato tra i molti successi distintivi del Partito Comunista. I maiali saranno anche infetti, ma sono utili alla propaganda.
Il giorno dopo che Xi ha ordinato alle autorità di contenere il coronavirus, i numeri hanno iniziato magicamente a scendere. In un’intervista al South China Morning Post, il professor Dali Yang, politologo dell’Università di Chicago, paragona la gestione del coronavirus al disastro della centrale nucleare di Chernobyl del 1986. “La tragedia del dottor Li ricorda quella della dozzina di vigili del fuoco di Chernobyl che furono mandati senza la minima protezione contro la contaminazione radioattiva e sepolti in un cimitero alla periferia di Mosca”, aggiunge Sylvie Kauffmann sul Monde. Nel 1979 si era verificato anche l’incidente di Sverdlovsk, quando spore mortali di antrace, uscite da una struttura di armi biologiche, uccisero 64 persone. Le autorità sovietiche nascosero l’incidente fino al 1992. Sfortunatamente, noi occidentali stiamo facendo lo stesso imperdonabile errore con la Cina: fidarsi di una dittatura disposta a lasciar dilagare una epidemia nel tentativo di non arrecare danno al regime. “E’ chiaro che il virus del dominio totalitario di Xi minaccia la salute e le libertà non solo del popolo cinese, ma di tutti noi”, ha scritto sul Guardian il dissidente cinese Ma Jian.
Un post di WeChat dedicato al dottor Li Wenliang includeva alcune frasi del chimico sovietico Valerij Legasov, protagonista della serie HBO, che investigò sul disastro di Chernobyl, che si ammalò per le radiazioni, che fu messo a tacere, perseguitato, costretto a mentire dal regime e che si impiccò. Fu soltanto dopo tre giorni di blackout totale che le autorità sovietiche ammisero quello che la Svezia aveva già capito dalla pioggia radioattiva. “Qual è il costo delle bugie?”, si chiese Legasov mentre il suo corpo si stava disfacendo per le radiazioni. “E’ che se ne sentiamo troppe, non riconosceremo più la verità”.