Il virus in medio oriente
Dal primo focolaio in Iran all’Egitto che chiude le scuole, la pandemia colpisce questa parte di mondo già provata da guerre e crisi economiche. E protestare non si può più
È un regione attraversata da lunghe guerre, da rivolte contro regimi antichi e corrotti, incapaci di garantire ai cittadini servizi fondamentali. È un'area attraversata da conflitti settari, in cui crisi economiche esasperano i contrasti sociali, dove il terrorismo emerge ciclicamente nel vuoto di potere o tra le turbolenze politiche, pronto a sfruttare ogni tipo di crisi ed emergenza. E quella del coronavirus è un'emergenza che ha già colpito in pieno il medio oriente, come il resto del mondo, ma che arriva in una regione già provata da anni di guerre, rivoluzioni, scontri perpetui, sistemi politici affaticati e giovani società sempre più inquiete, provate dalle difficili condizioni economiche.
L'epicentro della crisi, il focolaio principale del virus in medio oriente, è l'Iran, con oltre 18.400 contagi e 1.284 morti registrate a causa del Covid-19. Le autorità iraniane sono state lente a rispondere all'allerta sanitaria, piombata nel paese proprio nei giorni di un'elezione in cui per le potenti forze conservatrici locali l'affluenza era preziosa e fondamentale. La mancanza di trasparenza del regime – si teme che i numeri dell'infezione siano molto più alti – rende irrequieta una popolazione che da mesi scende episodicamente in strada in tutto il paese per protestare contro una classe dirigente corrotta, la sua gestione di una protratta crisi economica, la sua incapacità di fornire i più semplici servizi alla popolazione, tra questi un avanzato e capillare sistema sanitario. E non aiuta in questo scenario un'Amministrazione americana che, nel mezzo della pandemia, impone all'Iran rivale nuove sanzioni economiche, oltre a quelle che da tempo gravano sul paese.
Le antiche faide politiche non si spengono neppure davanti a un'epidemia globale: l'Arabia Saudita sunnita, rivale della Teheran sciita, ha chiuso la regione orientale di Qatif, 500 mila abitanti, dove è stato registrato il maggior numero di casi. La popolazione dell'area è prevalentemente sciita e la maggior parte delle persone infette era stata in pellegrinaggio nei luoghi sacri sciiti in Iran. Riad ha accusato Teheran per la diffusione del virus e per non aver segnalato alla monarchia i cittadini di ritorno dai suoi territori. Non manca però anche solidarietà: sia Qatar sia Emirati arabi uniti hanno inviato materiale medico e facilitato i voli degli aerei dell'Organizzazione mondiale della sanità verso l'Iran. I potentati del Golfo – dove si registrano un migliaio di casi circa – hanno messo in campo misure di distanziamento sociale come nel resto del mondo.
A preoccupare sono le pessime previsioni sull'andamento del prezzo del petrolio. L'Opec e l'Agenzia internazionale dell'energia hanno parlato della possibilità che alcuni paesi produttori di greggio a causa dell'arresto dell'economia globale possano perdere dal 50 all'85 per cento delle rendite energetiche nel 2020. Tra queste nazioni ci sarebbero anche paesi dell'area come Qatar e Kuwait. E Iraq, uno dei paesi maggiormente colpiti dalla minaccia di contagio a causa della prossimità geografica, politica e religiosa con l'Iran. E anche tra i luoghi più provati da anni di conflitti e terrorismo. L'Iraq a causa di anni di guerre sul suo territorio non ha infatti né le istituzioni politiche né le strutture sociali e sanitarie per far fronte a queste emergenza. E da mesi è attraversato da manifestazioni contro il governo, la corruzione della classe amministrativa, la crisi economica. Nel paese, inoltre, ci sono circa 1,5 milioni di sfollati a causa degli anni di combattimento contro lo Stato islamico. Preoccupa qui come nel resto della regione l'impatto del coronavirus sui campi profughi. Dopo nove anni di guerra, in Siria, un paese dalle istituzioni e le infrastrutture piegate dal conflitto, ci sono sei milioni di sfollati, mentre 5,5 milioni di rifugiati siriani sono nel resto della regione: dalla Giordania alla Turchia. Queste persone non hanno accesso a un sistema sanitario strutturato. Anche lo Yemen, attraversato da anni da un conflitto, ha campi di sfollati interni ed è già stato colpito da un'epidemia di colera.
In Libano, l'emergenza arriva nel mezzo della peggiore crisi economica e finanziaria dalla guerra civile finita nel 1990, con un governo che, benché cambiato sotto la pressione della piazza che manifesta da ottobre, resta obiettivo del dissenso. Israele, l'Autorità nazionale palestinese e Hamas si trovano invece a collaborare per contenere la minaccia del virus. Lo scenario più preoccupante è che l'infezione possa diffondersi nella Striscia di Gaza, con i suoi 1,8 milioni di abitanti in 360 chilometri quadrati, e strutture medico sanitarie assolutamente insufficienti per affrontare l'allerta.
Il regime egiziano di Abdel Fattah al Sisi ha dichiarato di aver registrato poco meno di 200 casi di Covid-19 sul suo territorio. Quando uno studio canadese, riportato non certo dai quotidiani o dalle emittenti locali, ma dalla stampa internazionale, ha sollevato un dubbio e ipotizzato almeno 20 mila casi, il governo ha minacciato di ritirare l'accredito giornalistico di corrispondenti stranieri, tradendo la propria preoccupazione. Chiunque conosca l'Egitto, dove sono state chiuse scuole, centri commerciali e messi in quarantena alcuni villaggi, sa che il suo sistema sanitario non è in grado di fare fronte a una simile emergenza. E una sola cifra basta a dare il senso della minaccia: a inizio 2020 la popolazione egiziana ha sorpassato i 100milioni.
Le nazioni del Nord Africa hanno implementato misure di distanziamento sociale consigliate dalle organizzazioni internazionali, anche se in alcuni paesi non manca la polemica. L'Algeria è attraversata ogni venerdì da un anno da proteste che hanno cambiato i contorni della sua politica e del suo regime. C'è resistenza, tra i manifestanti: alcuni non vorrebbero mettere fine alle marce, mentre accusano il governo di utilizzare l'emergenza coronavirus per vietare i cortei. Dall'altra parte, molte voci dell'hirak, il movimento rivoluzionario, come è chiamato dagli algerini, chiedono di fare appello al proprio senso civico. E in ultimo di restare a casa.