Circolano in questi giorni video devastanti che mettono in sequenza decine di dichiarazioni salienti di Donald Trump sull’epidemia del nuovo coronavirus a partire dal 22 gennaio, il giorno in cui è stato registrato il primo caso negli Stati Uniti. Il presidente dice “non siamo preoccupati, abbiamo tutto sotto controllo”, qualche giorno dopo spiega che “abbiamo per lo più contenuto” il contagio, poi dice al paese che “molti esperti pensano che andrà via in aprile”, che “migliaia di persone che guariscono senza fare niente, alcuni vanno anche al lavoro come se niente fosse”, che “il vaccino arriverà presto” e lui “non si prende alcuna responsabilità”. Se dovesse darsi un voto da uno a dieci sulla gestione dell’epidemia finora? “Dieci”. Si passa poi agli ultimi giorni, quelli della resipiscenza e della metafora bellica, del “nemico invisibile”, dei medici in trincea, del “ho preso sul serio il virus dall’inizio”. Infine, la conclusione da antologia: “Sentivo che si trattava di una pandemia prima ancora che fosse dichiarata una pandemia”. Tutto questo per tacere dell’ossessione, emersa in lui abbastanza tardivamente, per la qualifica cinese del virus, probabilmente interiorizzata guardando Fox News e ascoltando il solito giro di consiglieri che fa capo a Stephen Miller.
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