Articolo 21 a Wuhan
Dov’è la nostra solidarietà ai giornalisti cinesi scomparsi per avere denunciato il regime?
Roma. “Fin dal primo momento dell’esplosione dell’epidemia di coronavirus in Cina, l’Italia ha manifestato solidarietà e offerto aiuto alla Cina, a testimonianza del profondo rapporto di amicizia fra i popoli dei nostri due paesi. L’attuale situazione di prevenzione e controllo dell’epidemia in Cina continua a migliorare, e questo sarebbe stato impossibile senza il prezioso supporto della comunità internazionale, Italia compresa. Il popolo cinese apprezzerà sempre questa preziosa amicizia”. E’ quanto si legge in un messaggio inviato al segretario generale della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi), Raffaele Lorusso, da Wang Lin, rappresentante in Europa della All-China Journalists Association, l’organo di stampa del Partito comunista cinese. Oltre a ricevere la “solidarietà” del regime cinese, la Fnsi avrebbe potuto avviare una campagna per sapere che fine hanno fatto quei giornalisti cinesi che hanno raccontato l’epidemia a Wuhan e che da allora sono “scomparsi”.
Non si sa nulla del miliardario cinese Ren Zhiqiang, scomparso da domenica 15 marzo, dopo che in un blog aveva definito Xi Jinping “un clown nudo” per la gestione dell’emergenza coronavirus in Cina. In un’intervista con Axios, l’ambasciatore cinese negli Stati Uniti, Cui Tiankai, ha negato persino l’esistenza di Chen Qiushi. “Dov’è il giornalista Chen Qiushi?”, gli ha chiesto il reporter. “Non ho sentito parlare di questa persona”, ha risposto Tiankai. Due giornalisti, Fang Bin e Chen Qiushi, sono scomparsi. In uno dei suoi video più diffusi, Chen ha detto di conoscere i rischi che stava affrontando. “Ho paura. Di fronte a me c’è la malattia, dietro di me c’è il potere legale della Cina, ma finché sarò vivo, parlerò di ciò che ho visto e di ciò che ho sentito. Non ho paura di morire. Perché dovrei avere paura di te, Partito comunista?”. Chen si era già inviso il regime quando si era recato a Hong Kong sfidando la narrazione voluta dai media statali cinesi secondo cui i manifestanti erano violenti separatisti.
Non si hanno più notizie di Li Zehua. “Non voglio tacere o chiudere gli occhi e le orecchie. Non è che non posso avere una bella vita, con moglie e figli. Io posso. Lo sto facendo perché spero che più giovani possano, come me, tenere la schiena dritta”, diceva Zehua. Dopo essersi laureato in una delle migliori università cinesi, Zehua aveva iniziato a lavorare come anchor per la più importante stazione televisiva statale cinese, la Cctv. Se fosse rimasto entro i confini tracciati dal regime e non avesse sollevato dubbi e preoccupazioni sull’epidemia, Zehua avrebbe potuto vivere una vita tranquilla. Ha trovato invece il modo di entrare a Wuhan, da cui ha iniziato a postare. Ha pubblicato un video mentre veniva seguito dagli agenti di pubblica sicurezza. “Mi stanno inseguendo. Sono sicuro che vogliono tenermi in isolamento. Aiutatemi per favore!”. Li è tornato nel suo appartamento e ha ricominciato lo streaming. “Oggi molti giovani cinesi probabilmente non hanno idea di cosa sia successo nel nostro passato, pensano che sia la storia che si meritano”. Bussano alla sua porta. Entrano due uomini dal volto coperto, la telecamera viene bruscamente spenta e il livestream si ferma. Nessuno ha avuto notizie di Zehua da quel giorno.
In Italia nessuno si è mosso per loro. C’è stato soltanto lo sciopero della fame di Maurizio Bolognetti del Partito radicale. Nulla da parte di Articolo 21 di Giuseppe Giulietti. Interviste sono invece apparse sulle agenzie italiane a Liu Pai, a capo della sezione italiana del China Media Group di Pechino. Ai giornalisti cinesi desaparecidos dobbiamo molto di più. Anche perché se sappiamo qualcosa su Wuhan lo dobbiamo solo a chi ha tirato un po’ di sabbia nella macchina della propaganda cinese. Quel regime che oggi ringraziamo.