“L'ha annunciato la Cnn?”. Cronaca dell'ultima volta in cui morì il leader nordcoreano
Mentre il mondo è alle prese con una pandemia, chissà se oggi le varie basi militari americane in Corea del sud hanno qualche informazione in più, o se come nel 2011 aspettano le notizie dai media
Eravamo a pranzo, in uno dei tanti ristoranti all american della base statunitense di Yongsan, 2.4 chilometri quadrati nel centro di Seul. Sotto controllo americano da poco dopo la fine della Guerra di Corea (1953), ospitava 28 mila persone, quasi tutti americani, ricreando una specie di suburbia americana isolata in mezzo a un’area urbana ad alta densità – e ad alto costo immobiliare – nella capitale della Corea del sud. Ci servivamo da una sorta di buffet tex mex. Nella base di Yongsan, ora in via di smantellamento, la maggior parte del cibo, dei beni di consumo venduti nei supermercati, e perfino suppellettili e decorazioni dei locali, era importato dall’America. Era così da sempre, ed era così nel dicembre del 2011, quando finalmente ero riuscita a entrare nella più grande base americana nel mondo in una zona non militarmente attiva, per un reportage su quest’America fuori dall’America. Dopo richieste scritte e documenti, avevo avuto il permesso di restare un giorno intero. Ero arrivata a Seul il 17 dicembre e avevo fatto il mio ingresso nel posto più esotico della Corea lunedì 19 dicembre. Due date più importanti di quanto non sembrasse.
La mattina era trascorsa nelle lunghe trafile per l’ingresso – nella guardiola, dove non potevo fare fotografie, un cartello disegnato raffigurava un soldato in piedi davanti a una ragazzina coreana in divisa da scolaretta, occhi negli occhi, e ammoniva a non imporre relazioni sessuali indesiderate: “Pensa alla tua famiglia!”, diceva, senza accennare a quella della ragazza, o almeno alla ragazza stessa. Entrai. Il portavoce dell’Ottavo esercito di stanza in Corea del sud, il colonnello Mutter, mi aveva spiegato che la missione militare americana in Corea aveva come scopo “Deter Aggression. Fight Tonight”. Ovvero, fare da deterrente all’aggressione ed essere pronti al combattimento seduta stante, nel caso in cui ci fossero state provocazioni del Nord, che dovevano essere prevenute tramite l’intelligence.
Poi c’era stato il pranzo. Il colonnello Mutter, durante il pasto, si scusa di dover rispondere al cellulare. Dice “pronto” e diventa grave. “Lo sta annunciando la Cnn? Vengo immediatamente in ufficio”. Si scusa, si alza, e cancella l’intervista con me nel pomeriggio. “E’ successo qualcosa?”, domando. “Non posso parlarne”, risponde. Il mio sguardo vaga nella sala da pranzo. Sullo schermo di una televisione un annuncio in rosso riporta che il dittatore Kim Jong Il, padre dell’attuale leader Kim Jong Un, è morto. Il mio cellulare vibra, è un’allerta breaking news: “Morto Kim Jong Il”. Faccio in tempo a esclamare: “E’ morto Kim!” prima che il colonnello Mutter vada via.
L’intelligence aveva fatto un po’ cilecca. Kim era morto due giorni prima, ma a Yongsan il decesso era stato appreso dalla Cnn dopo l’annuncio ufficiale di Pyongyang del 19 dicembre. Venni scortata in auto verso la porta da un Katusa, un soldato parte della Korean Augmentation to the United States Army: un ragazzo di leva coreano in supporto dei militari americani in Corea. Gli chiedo cosa succederà secondo lui. “Che siamo fregati!” mi dice, con un sorriso nervoso. Nel 2011, Pyongyang non aveva fatto trapelare i dettagli della successione – proprio come oggi, che il mondo intero si domanda che fine abbia fatto Kim Jong Un e chi mai possa prendere il suo posto se la sua prolungata assenza dai media nordcoreani si confermi essere la prova di grave malattia o addirittura di decesso. Dato che Kim Il Sung, fondatore della Corea del nord e presidente in eterno (seppur morto nel 1994), aveva indicato di volere il figlio Kim Jong Il alla successione, la dinastia politica era cosa certa: ma chi sarebbe stato Kim III?
Scesa dalla macchina del Katusa, sono scortata fuori dal cancello da un soldato con cui provavo a chiacchierare: dice “no comment” sul decesso appena annunciato, gli chiedo se questa è la sua prima esperienza all’estero. “No”, dice: “Ero a Guantanamo”. Chiedo cosa ne avesse pensato, e risponde: “Pensare? Io non penso. Eseguo”. Anche il colonnello Mutter aveva detto così: “Noi uomini in verde non pensiamo. Seguiamo gli ordini”. Mentre il mondo è alle prese con una pandemia, chissà se oggi le varie basi militari americane in Corea del sud hanno qualche informazione in più, o se come noi, come allora, aspettano le notizie dai media.
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