La Cina è diventata il più grande carcere al mondo per scrittori e poeti
Il rapporto del Pen americano e quei 238 nomi di perseguitati
Roma. “Ogni lettura è un atto di resistenza”, recita il vacuo adagio che si porta in certe coterie letterarie occidentali. Ci sono tre paesi dove scrivere è davvero un atto di resistenza che non si porta ma ti porta in carcere. Secondo una nuova sezione del Pen americano, è record di scrittori in carcere. Sono 238 per l’esattezza, concentrati in tre paesi: Cina, Arabia Saudita e Turchia. Al quarto posto c’è la Repubblica islamica dell’Iran. Questi stessi paesi sono anche tra i più prolifici carcerieri di giornalisti al mondo, secondo il censimento del Committee to Protect Journalists. Il Pen analizza la sorte di questi poeti, studiosi, intellettuali e traduttori. Alcuni sono casi noti, come il turco Ahmet Altan e il saudita Raif Badawi, condannato al carcere e alle frustate sei anni fa.
“L’elevato numero di scrittori e intellettuali detenuti o incarcerati in Cina riflette una repressione in corso sotto il presidente Xi Jinping”, si legge. Un totale di 73 scrittori e intellettuali sono stati incarcerati in Cina.
Sono 34 i letterati, 23 gli studiosi e 17 i poeti. Ci sono il libraio di Hong Kong Gui Minhai, i poeti Xu Lin e Wang Yi, l’editore Yao Wentian, gli scrittori Lü Gengsong e Lu Jianhua. C’è chi è imprigionato per avere raccontato la Cina della Rivoluzione culturale, quando Pechino tentò di fare tabula rasa di ogni tradizione premaoista. Lhamjab Borjigin è uno scrittore e studioso di etnia mongola che ha trascorso anni a raccogliere storie di sopravvissuti alla violenza della Rivoluzione culturale. E’ perseguitato per il libro “La rivoluzione culturale cinese”, che descrive la tortura e altre brutalità inflitte dal Partito comunista cinese. Lhamjab è stato posto agli arresti domiciliari e le autorità hanno confiscato copie del libro. Kunchok Tsephel Gopey Tsang, scrittore, poeta e studioso tibetano, è stato condannato a quindici anni di carcere, dove le visite della sua famiglia sono limitate e sono costretti a parlare in cinese. Di fatto gli è stato impedito di comunicare. Jo Lobsang Jamyang, anche lui letterato tibetano, è stato tenuto in isolamento per oltre un anno, un periodo durante il quale ha subìto torture.
E’ un buco nero dentro al quale sono finiti anche i critici del regime cinese durante la pandemia. La polizia di Pechino ha arrestato il professor Chen Zhaozhi per avere scritto: “La polmonite di Wuhan non è un virus cinese ma un virus del Partito comunista cinese”. Il Pen parla del caso del professor Xu Zhangrun, agli arresti dopo avere pubblicato un saggio contro la repressione sotto il presidente Xi. “L’epidemia di coronavirus ha rivelato il nucleo marcio della governance cinese”, ha scritto il professor Zhangrun. Ha aggiunto che il sistema cinese “valorizza il mediocre, il delatore e il timido” e che il disordine causato dai funzionari di Wuhan che hanno coperto i primi segni del virus “ha infettato ogni provincia e la putrefazione arriva fino a Pechino”. Gli account social del professore sono stati disattivati, il suo nome è stato cancellato da Sina Weibo, una piattaforma di blog cinese, e ora solo articoli di siti web ufficiali vengono visualizzati sul più grande motore di ricerca del paese, Baidu.
Cina, Arabia Saudita e Turchia, dicevamo. I paesi con i quali l’occidente sembra avere stretto un rapporto economico e geopolitico che ha portato anche a una fortissima sudditanza ideologica. Per parafrasare Leon Trotsky: puoi non essere interessato alla Cina, ma la Cina è interessata a te. Per questo dovremmo interessarci alla sorte di questi scrittori.
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