L’hanno soprannominata la regina della quarantena. E’ Amy Qin, corrispondente dalla Cina del New York Times, che in tre mesi è stata in isolamento, come norma precauzionale per la Covid, in quattro città diverse. Qin è stata una delle prime giornaliste ad arrivare a Wuhan all’inizio dell’epidemia. Ha raccontato, sul Times e via social network, la vita nell’epicentro dei contagi. A metà febbraio è stata evacuata dai militari americani ed è stata trasferita a San Diego, ma poco dopo è tornata a Pechino, via Seul. Non era trascorso neanche un mese dal suo rientro quando la Cina ha deciso di espellere tredici, praticamente quasi tutti i giornalisti del New York Times, Wall Street Journal e Washington Post. Da otto anni Pechino era la sua casa, ma Qin è stata costretta nel giro di pochi giorni a trovare un modo per tornare a Los Angeles – e mettersi di nuovo in autoisolamento. Poi, a metà aprile, si è trasferita nella capitale di Taiwan, Taipei, “la mia nuova base per scrivere di Cina”. Amy Qin ha scritto delle sue quarantene nel mezzo di una pandemia, ma il suo racconto è anche un ritratto delle conseguenze più dolorose e significative dello scontro tra America e Cina. Il 17 marzo scorso, la decisione di Pechino di espellere un numero impressionante di reporter di media americani, sospendendo oppure non rinnovando i visti giornalistici, è stata accolta nell’ambiente dei giornali, soprattutto tra chi si occupa di questioni asiatiche, come un cambio di passo notevole nell’evoluzione di questa specie di “nuova Guerra fredda” tra Pechino e Washington. La decisione cinese è direttamente collegata alla mossa precedente che arrivava dall’America: il 18 febbraio scorso l’Amministrazione Trump ha deciso di elencare i cinque media statali cinesi che operano sul territorio americano – Xinhua, China Radio, China Daily, il Giornale del popolo e il China Global Television Network – nella lista delle rappresentanze di governi stranieri, e quindi soggetti a regole simili a quelle dei diplomatici negli Stati Uniti. E’ un modo per dire: sappiamo che non fate lavoro giornalistico, perché non siete indipendenti. E, di conseguenza, anche un modo per limitare il numero dei dipendenti dei grandi media cinesi su suolo americano. Nelle stesse ore, Pechino ha deciso di revocare il visto giornalistico ai primi tre reporter del Wall Street Journal (ufficialmente a causa del titolo a un articolo d’opinione pubblicato sul giornale e definito “razzista”. Il titolo era “China Is the Real Sick Man of Asia”). L’attrito diplomatico tra Washington e Pechino parte anche da qui, da una guerra diplomatica che si è trasferita nel settore del giornalismo. Ma pone anche un interrogativo più profondo, sul senso stesso del giornalismo, che non dovrebbe essere considerato una rappresentanza diplomatica, e che non dovrebbe rispondere a logiche politiche. Né da una parte (la propaganda), né dall’altra (i messaggi diplomatici). Per i giornalisti stranieri in Cina, raccontare la Cina al di là di quello che la Cina vorrebbe che si dicesse di lei fuori dai suoi confini è sempre stata una sfida tutto sommato elegantemente tollerata. Poi però è successo qualcosa.
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