La convention di Trump
Il presidente americano cerca una nuova casa per l’incoronazione estiva. Che cosa ci dicono le varie scelte della strategia elettorale
Di Donald Trump si può dire tutto, ma proprio tutto. Ma non che con lui ci si annoi. Questo proprio no. L’ultima mattana per cui, tra pandemie e rivolte, il presidente “law and order” ha trovato il tempo è stata quella di spostare con un tweet la convention repubblicana di agosto e gettare nello scompiglio i solerti manovali dell’organizzazione del partito.
Had long planned to have the Republican National Convention in Charlotte, North Carolina, a place I love. Now, @NC_Governor Roy Cooper and his representatives refuse to guarantee that we can have use of the Spectrum Arena - Spend millions of dollars, have everybody arrive, and...
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) June 3, 2020
L’evento di incoronazione del candidato alla presidenza che, per tradizione, ogni partito tiene nel corso dell’estate precedente il voto, non è una festa di paese, ma una gigantesca riunione di partito a cui partecipano, tra delegati e giornalisti, circa 50 mila persone e che richiede un'organizzazione di un paio d’anni.
In teoria, la convention repubblicana, avrebbe dovuto tenersi i prossimi 24, 25, 26 e 27 agosto a Charlotte, in North Carolina. Un evento che la città aspettava con grande trepidazione, non tanto per il suo valore politico, quanto per il suo poderoso indotto.
Per avere idea di quanto grande sia la ricaduta economica di una convention per le presidenziali basti sapere che il Charlotte Observer ha fatto i conti in tasca all’ultima convention ospitata dalla città, quella dei democratici nel 2012. A quell’epoca la città ebbe guadagni diretti e indiretti per 164 milioni di dollari, 91 dei quali generati dai visitatori che dormivano negli alberghi, cenavano nei ristoranti, compravano souvenir e si spostavano in taxi.
Poi però a rompere le uova nel paniere agli abitanti di Charlotte (e a mezzo mondo, per dirla tutta) è arrivato il CoVid, con il suo strascico di morti, malati e polemiche. In particolare il governatore dello stato, il democratico Roy Cooper, ha fatto sapere che non è affatto scontato che l’evoluzione della malattia consenta di ospitare in sicurezza un evento con 50 mila persone in arrivo da tutto il mondo. D’altro canto Trump ha fatto sapere di non aver nessuna voglia di spostare, rinviare o, peggio mi sento, spostare la convention on line (come hanno fatto i democratici). Così, dopo alcune settimane di alterco tra il governatore e il presidente, ieri Trump ha twitattato stizzito una cosa che suona come “caro Governtore Cooper, visto che lei non può assicurarci di svolgere la Convention, ce ne andiamo altrove”.
Ora, al di là dello scompiglio che questa decisione può aver creato tra gli addetti all’organizzazione degli eventi del partito repubblicano (e che- francamente- sono un po’ fatti loro), la cosa interessante è quel che lo spostamento della convention ci racconta dal punto di vista elettorale ( e che, in fondo, è la cosa che a noi osservatori europei interessa di più).
Il fatto che Trump abbia dato ordine ai suoi di spostare (del tutto o in parte) la convention significa due cose soprattutto.
La prima: la compiuta trasformazione di Trump da leader un po’ improbabile del ‘grande e vecchio’ partito repubblicano, a leader in sé e per sé. Nel 2015 Trump era solo un candidato tra gli altri e aveva bisogno di conquistare il partito per correre per la presidenza. Ora, cinque anni dopo, è il partito che deve conquistarsi lui, se vuole la presidenza. Trump non è più un candidato e non è nemmeno più un politico: è diventato un marchio, un’ideologia, una sineddoche e non ha più bisogno di avere alle spalle una macchina importante, ordinata e complessa come è quello di un partito vecchio di secoli.
La seconda cosa sulle elezioni che lo spostamento della convention ci dice riguarda gli swing states. Una convention, in genere (non sempre, per chiarimenti citofonare Clinton e chiederle della convention a Philadelphia nel 2016) è foriera di una grande ricaduta in termini di propaganda: del resto è difficile non votare per un partito che ha portato, per una settimana, nel proprio stato, visitatori e soldi da tutto il mondo. Per questo è importante scegliere con cura lo stato in cui riunirsi. E per questo, quasi sempre, le convention vengono organizzate in stati in bilico. Il North Carolina è in bilico, ma vale “solo” 15 voti. La Florida, dove la convention potrebbe essere spostata, in città come Orlando o Jacksonville invece, ne vale 29. L’altro stato papabile per la convention, il Nevada, con l’improvvisamente impoverita Las Vegas, ne vale 6 e sembra destinato ai democratici, ma potrebbe ricevere un segnale molto pesante in termini di risposta alla crisi e trascinarsi dietro altri stati in bilico e colpiti dal CoVid come la Florida o il Michigan.
Per Trump l’idea di togliere la Convention al Nord Carolina (stato in bilico con tendenza democratica) e di regalarla a un altro stato potrebbe essere una mossa vincente. Da un lato riuscirebbe a far passare il governatore democratico Roy Cooper come un pavido cui non importa delle tasche dei suoi cittadini e che se la fa sotto dinanzi al CoVid, anche a costo di togliere incassi milionari alle sue città. Dall’altro potrebbe usare l’indotto, economico e di propaganda, della convention per conquistare uno stato in bilico: o la Florida, che proprio non può perdere, o il Nevada, stato simbolo dei danni economici del lockdown. Si tratta di una scommessa a rotta di collo. Una di quelle di cui è specialista Donald Trump.