La gioia degli autocrati

Micol Flammini

Le immagini di un’America che mostra il fianco piacciono a Mosca e a Pechino

Roma. Capita che questo spettacolo di un’America che non fa l’America piaccia molto a chi nell’America ha sempre visto il suo contrario. Capita quindi, che a vedere non soltanto le proteste, ma anche le violenze e la polizia che colpisce manifestanti e giornalisti, c’è chi un po’ ci si riconosce ed è felice di poter sottolineare il disastro, gli errori, i crimini compiuti per le strade di Minneapolis e non soltanto. Sono le consolazioni dei regimi che in questi giorni si divertono a guardare le strade che bruciano, si divertono anche a commentare sui social o a mandare lettere indignate ai giornali.

 

Lo hanno fatto i cinesi, i russi, i turchi e gli iraniani. La scorsa settimana si era già fatto sentire Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco che su Twitter aveva scritto che il razzismo e il fascismo che avevano causato la morte di George Floyd non soltanto erano motivo di tristezza, ma anche una dolorosa manifestazione dell’ordine ingiusto “contro cui combattiamo”. E poi anche Ali Khamenei su Twitter aveva denunciato che in America se esci e hai la pelle scura non hai la certezza di tornare a casa. Pechino e Mosca sono stati tra i più grandi commentatori, o spettatori delle proteste americane. Soprattutto la Cina che in questi giorni ha visto aumentare la pressione degli Stati Uniti per l’applicazione della legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong: il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha risposto a un tweet del dipartimento di stato usando lo slogan dei manifestanti americani “I can’t breathe”. Anche i russi si sono schierati, tutti insieme e tutti uniti, e si sono affacciati sui social per condannare questo lato oscuro dell’America di Donald Trump. Il ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, ha accusato Washington per i troppi “incidenti” ed “errori” della polizia americana e anche la portavoce del ministero, Maria Zakharova, lunedì si è sentita di poter contestare Trump e le leggi americane su Facebook: “Il presidente degli Stati Uniti ha minacciato il suo paese di introdurre l’esercito nelle città. Lo ha fatto ai sensi di una legge sulle rivolte che risale al 1807. Ora siamo nel 2020”.

 

Alcuni media russi come Russia Today e Sputnik, organi legati al Cremlino e con siti internet in diverse lingue, hanno seguito molto da vicino le rivolte, sono molto attenti ai movimenti americani e la direttrice di RT, Margarita Simonyan ha scritto qualche consiglio ai ribelli americani, dieci in tutto, “da una giornalista che ha seguito sette piazze di rivoluzioni colorate”. I consigli vanno dal “fatevi un logo” a “date psicostimolanti ai manifestanti”. Ma anche i cinesi si sono dati da fare e su Twitter molti diplomatici hanno condiviso video di arresti criticando la violenza della polizia americana.

 

Su Politico, Mark Scott ha scritto che dal 30 maggio funzionari governativi, organi di stampa, utenti di Twitter legati a Mosca e a Pechino hanno lanciato diversi messaggi divisivi con cui criticano l’operato di Washington. Gli esperti di disinformazione, dice Scott, sostengono che i paesi stiano intensificando i loro sforzi online anche in vista delle elezioni presidenziali americane e che la Cina sta diventando sempre più audace nell’utilizzo di una tecnica in cui era la Russia a eccellere fino a pochi mesi fa. Anche l’ex consigliere alla sicurezza nazionale, Susan Rice, ha detto alla Cnn che la violenza delle proteste è stata spinta e alimentata dalla strategia russa e dal suo intento di destabilizzare e Marco Rubio ha twittato che le potenze straniere stanno attivamente alimentando “e promuovendo la violenza”. La macchina della propaganda non si sarà fermata ma questa volta cercare l’intervento della forza straniera nelle proteste americane sembra quasi voler allontanare le responsabilità di quanto sta succedendo alla Casa Bianca. I toni di Donald Trump, l’assenza di una leadership e la mancanza di tentativi di riconciliazione in questi giorni per le strade americane sono più forti dell’interferenza straniera. E’ il presidente stesso a destabilizzare e a fomentare scene che ai regimi che si dicono indignati piacciono molto. Da Mosca a Pechino, da Ankara a Teheran, come ha scritto il Washington Post, sono tutti attenti a guardare cosa accade e a godersi le scene di un’America dolorante che espone i suoi difetti e mostra il fianco.